Akagi (portaerei)

portaerei della Marina imperiale giapponese

L'Akagi (赤城? lett. "Castello Rosso") è stata una portaerei di squadra appartenente alla Marina imperiale giapponese, unica unità della sua classe e così nominata dal vulcano omonimo che sorge nella regione del Kantō. Inizialmente progettata e impostata come incrociatore da battaglia della Classe Amagi, fu convertita in seguito alla stipula del trattato navale di Washington sulla riduzione degli armamenti navali: aveva una capacità di 68 velivoli tra caccia, aerosiluranti e bombardieri in picchiata.

Akagi
Descrizione generale
TipoPortaerei
Classederivata dalla Classe Amagi
ProprietàMarina imperiale giapponese
Ordine1920 (come incrociatore da battaglia)
Impostazione7 dicembre 1920
Varo22 aprile 1925
Entrata in servizio27 marzo 1927
Destino finaleGravemente colpita il 4 giugno 1942 nella battaglia delle Midway, autoaffondata il 5 giugno
Caratteristiche generali
Dislocamento42.000 t
Lunghezza260,68 m
Larghezza31,32 m
Pescaggio8,71 m
Propulsione19 caldaie, turbine ad ingranaggi, 4 eliche, 133.000 shp
Velocità31 nodi (58,3 km/h)
Autonomia8.200 nm a 12 nodi
Equipaggio2.000
Armamento
Armamentoartiglieria (1927):
CorazzaturaCintura: 152 mm
Ponte: 79 mm
Mezzi aereifino a 68 apparecchi
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Progetto

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Originariamente disponeva di 3 ponti disposti "a scalino", non presentava isole nemmeno sul ponte di volo superiore, ed i 2 ponti inferiori non necessitavano di elevatori. Possedeva inoltre un armamento antinave costituito da 10 cannoni da 200 mm Type 3 modello 1, formato da 2 torri binate affiancate nel settore prodiero e 6 pezzi singoli in casamatta (3 per lato) a poppa, ed un armamento antiaereo di 6 complessi binati da 120 mm (3 per lato) e varie mitragliere.

 
Diorama di Norman Bel Geddes: le portaerei Kaga, Sōryū e Akagi in fiamme

Tra il 1935 e il 1938 la Akagi fu sottoposta a una serie di ammodernamenti, a partire dall'eliminazione dei ponti di volo e dei cannoni a prora, per formare un'unica grande piattaforma affiancata, a sinistra, da una piccola isola e fornita di tre elevatori. Fu inoltre costruito un unico fumaiolo sul lato di dritta, orientato verso l'esterno e il basso, per evitare che i fumi di scarico ostacolassero le manovre sul ponte di volo. Fu infine incrementata la potenza motrice a 133 000 shp e la velocità massima a poco più di 31 nodi.

Protagonista dell'attacco di Pearl Harbor assieme alle portaerei Kaga, Soryu, Hiryu, Shokaku e Zuikaku in qualità di nave ammiraglia della 1ª Flotta aerea del viceammiraglio Chūichi Nagumo, fu colpita nella battaglia delle Midway il 4 giugno 1942 da uno stormo di bombardieri in picchiata Douglas SBD Dauntless appartenenti alla portaerei USS Enterprise. Tra le 10:26 e le 10:28 gli ordigni detonarono in corrispondenza dell'elevatore centrale, incendiando l'aviorimessa e una parte degli apparecchi già pronti al decollo sul ponte di volo, carichi di carburante e di armi; si verificarono una serie di violente esplosioni che resero oltremodo difficile il controllo e la circoscrizione degli incendi, infine unitisi a formare un unico rogo. Il comandante, capitano di vascello Takijirō Aoki, invitò Nagumo ad abbandonare la nave e questi, molto scosso per il subitaneo rovescio subito, si trasferì alle ore 10:46 sull'incrociatore leggero Nagara[1][2][3].

«Guardandomi intorno, fui colpito dalle distruzioni prodotte in così breve tempo... non potei trattenere le lacrime vedendo l'incendio che si estendeva e pensando ai nuovi disastri che avrebbe provocato l'esplosione delle bombe e dei siluri.[4]»

La mattina del 5 giugno, divenuto chiaro che la portaerei non era più salvabile, cacciatorpediniere nipponici trassero in salvo gli ultimi membri dell'equipaggio ancora a bordo e finirono la Akagi con alcuni siluri.

Il 20 ottobre 2019, la nave da ricerca Petrel ritrovò il relitto della Akagi a 5.346 m di profondità presso l'atollo di Midway.

  1. ^ Millot 2002, p. 255.
  2. ^ Okumiya 2002, p. 152.
  3. ^ Cartier 1968, pp. 548-549.
  4. ^ Ricordi di un ufficiale giapponese presente a bordo della portaerei Akagi durante l'attacco dei bombardieri americani; in Bauer 1971, p. 313.

Bibliografia

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