Battaglia di Emesa
La battaglia di Emesa fu combattuta nel 272 tra l'esercito dell'Impero romano comandato dall'imperatore Aureliano e quello del Regno di Palmira, condotto dal generale Zabdas per la regina Zenobia. La vittoria di Aureliano portò poco dopo alla riconquista di Palmira e la ricomposizione dell'impero.
Battaglia di Emesa parte delle campagne orientali di Aureliano | |||
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Campagne orientali di Aureliano del 272 | |||
Data | 272 | ||
Luogo | Emesa | ||
Esito | Vittoria decisiva di Aureliano | ||
Schieramenti | |||
Comandanti | |||
Effettivi | |||
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Contesto storico
modificaIl Regno di Palmira si era reso autonomo nel 260, in occasione della cattura dell'imperatore Valeriano nella battaglia di Edessa, e si era allontanato sempre più dall'impero sotto Settimio Odenato prima e sotto sua moglie Zenobia poi. Dopo un iniziale riconoscimento reciproco di Aureliano e Vaballato (il figlio di Odenato, regnante sotto la tutela della madre Zenobia), l'imperatore aveva rotto gli indugi e iniziato una campagna di riconquista. Proponendosi come riconquistatore e restauratore, piuttosto che come conquistatore e punitore delle terre precedentemente romane, Aureliano aveva affrontato e sconfitto nella battaglia di Immae (272) Zenobia e il suo generale Zabdas, costringendoli a rifugiarsi a Emesa.
Forze in campo
modificaLa forza d'invasione che componeva l'armata di Aureliano era composta da legioni (e/o loro vexillationes) provenienti dalla Mesia, Pannonia, Norico e Rezia; truppe scelte della guardia pretoriana; unità di cavalleria "scelta" dalmata (i cosiddetti equites Dalmatae) e maura (equites Mauri); numerosi contingenti ausiliari provenienti da Tyana, Mesopotamia, Fenicia e Palestina romana (questi ultimi dotati di mazze e bastoni).[1]
L'esercito palmireno era invece composto da circa 70.000 armati, molti dei quali costituivano la cosiddetta cavalleria pesante dei clibanarii.[1]
Battaglia
modificaCome già accaduto a Immae, i Palmireni puntarono tutto sulla loro cavalleria pesante, i clibanarii, numericamente e qualitativamente superiore alla cavalleria romana. Prima dello scontro decisivo però, le forze romane dovettero affrontare un primo scontro nei pressi di Dafne.
«I fuggiaschi, quando presero visione dei proclami, accorsero e approfittarono della benevolenza dell’imperatore, il quale, dopo avere risolto i problemi della città, si diresse a Emesa; e avendo scoperto che un contingente di Palmireni occupava un colle sovrastante il sobborgo di Dafne, pensando di sfruttare la posizione favorevole per impedire il passaggio dei nemici, ordinò ai soldati di accostare gli scudi e, formata una fitta falange, di salire verso il colle e respingere dardi e pietre, se mai ne scagliassero, con la compattezza della falange. I soldati eseguirono con scrupolo questo ordine; dopo avere scalato quel luogo scosceso, come era stato loro comandato, si scontrarono con i nemici in condizioni di parità e li misero subito in fuga: alcuni, precipitando giù negli strapiombi, si sfracellavano, altri erano massacrati dagli inseguitori e da quelli che non avevano partecipato all’ascesa verso l’altura. Dopo la vittoria, passando senza pericolo [...][2] indirizzando l’imperatore la sua marcia in quei territori.»
Dopo questa nuova vittoria romana, le città di Apamea, Larissa e Aretusa, lungo il fiume Oronte si arresero senza combattere ad Aureliano,[1] il quale continuò poi la propria marcia fino alla città siriana di Emesa. Qui Aureliano trovò l'intero esercito palmireno di 70.000 armati, schierato di fronte alla città,[1] dove i due eserciti poco dopo si scontrarono.
«Quando gli eserciti si scontrarono, la cavalleria romana ritenne opportuno ritirarsi per un po’, per evitare che i soldati senza accorgersi si ritrovassero accerchiati dal gran numero di cavalieri palmireni, che erano superiori e cavalcavano intorno a loro. Orbene, poiché i cavalieri palmireni si gettavano all’inseguimento di quelli che si ritiravano e in questo modo rompevano il loro schieramento, si verificò il contrario di quello che volevano i cavalieri romani: infatti, erano in realtà inseguiti, risultando molto inferiori ai nemici. Dal momento che pure cadevano in moltissimi, avvenne allora che tutta la battaglia gravasse sui fanti: vedendo infatti che i Palmireni avevano sconvolto i loro ranghi per lanciare all’inseguimento i cavalieri, ripiegarono e li attaccarono mentre erano disordinati e dispersi. Per questo c’era una grande strage: alcuni assalivano con le armi consuete; quelli della Palestina invece colpivano con bastoni e mazze i loro avversari, che indossavano corazze di ferro e di bronzo. Questo fu in parte la causa principale della vittoria: i nemici rimasero sbalorditi per l’insolito assalto delle mazze.»
I Palmireni fuggirono quindi disordinatamente e nella loro fuga calpestavano i loro stessi commilitoni ed erano uccisi dalle cariche della fanteria romana. La pianura al termine della battaglia era un'autentica cerneficina tra uomini e cavalli. Quelli che avevano potuto fuggire tra i Palmireni, raggiunsero la città di Emesa.[3]
Conseguenze
modificaZenobia, dopo la terza disastrosa sconfitta, decise di ritirarsi da Emesa e fuggire fino a Palmira, dove avrebbe organizzato l'ultima resistenza.[4] La repentina fuga non le permise però di recuperare il tesoro che aveva nascosto in città. Aureliano, informato della fuga di Zenobia, entrò in Emesa, accolto con favore dai suoi cittadini e qui trovò il tesoro abbandonato dalla regina ribelle.[5]
L'ultimo atto della guerra si consumava con l'assedio di Palmira, dove la città ormai prossima a capitolare vedeva Zenobia fuggire verso la Persia. Catturata poco dopo mentre attraversava l'Eufrate, venne consegnata ad Aureliano, che però decise di risparmiarle la vita.
Note
modificaBibliografia
modifica- Fonti primarie
- Zosimo, Storia nuova, I.
- Fonti storiografiche moderne
- Long, F.Jacqueline, "Vaballathus and Zenobia (270-272 A.D.)", De Imperatoribus Romanis, 1997, su roman-emperors.org. URL consultato il 19 giugno 2007 (archiviato dall'url originale il 15 maggio 2008).
- R.Stoneman, Palmyra and its Empire. Zenobia revolt against Rome, Michigan 1994. ISBN 0-472-08315-5
- A.Watson, Aurelian and the Third Century, Londra & New York 1999. ISBN 0-415-30187-4.