Battaglia di Pistoia
La battaglia di Pistoia (62 a.C.) è l'evento conclusivo della congiura di Catilina, in cui Lucio Sergio Catilina, eletto dalla bassa plebe, cercò di apportare leggi in suffragio di questi ultimi, ottenendo dal senato romano la propria messa al bando.
Battaglia di Pistoia parte della Congiura di Catilina | |||
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Data | gennaio 62 a.C. | ||
Luogo | Pistorium, in Etruria, a nord di Roma | ||
Esito | Vittoria delle truppe regolari romane | ||
Schieramenti | |||
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Comandanti | |||
Effettivi | |||
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Perdite | |||
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Tale battaglia si svolse sulla Montagna pistoiese, nei pressi dell'attuale abitato di Campo Tizzoro, alla confluenza del torrente Maresca nel fiume Reno.
Antefatto
modificaIl 3 gennaio del 62 a.C. il Senato Romano dichiara hostis («nemico pubblico») Catilina e i suoi seguaci, e propone di richiamare dalla provincia dell'Asia l'imperator (che all'epoca significava solo «Comandante supremo delle Forze armate») Pompeo, per affidargli la guerra contro Catilina.
Catilina, intanto, cercava con i suoi fedelissimi di scappare verso il nord, per raggiungere la Gallia e rinforzarsi prima di marciare su Roma. Ma, trovata la via Emilia sbarrata all'altezza di Bologna da tre legioni, comandate dal propretore della Gallia Cisalpina Quinto Cecilio Metello Celere, decide di ripiegare verso ovest, e si ferma a Campo Tizzoro, presso Pistoia.
Sallustio riporta il discorso ai suoi prima dello scontro:
«Soldati, so benissimo che le parole non valgono a creare il coraggio e che il discorso di un capo non rende ardimentoso un esercito imbelle né forte un esercito pavido. Tutta l'audacia che natura o educazione hanno posto nel cuore di ciascuno appare evidente in un combattimento; inutilmente esorteresti colui che non è scosso dal desiderio di gloria e dalla grandezza del pericolo, la paura gli impedisce di sentire. Io invece vi ho radunati per richiamarvi alcune poche cose e insieme per mettervi a parte delle ragioni che mi hanno portato a questa decisione. Voi siete al corrente, o soldati, di quale disastro abbia causato a lui e a noi l'inettitudine e l'indolenza di Lentulo, sapete come io nella vana attesa di rinforzi dalla città non sia potuto partire per la Gallia, voi dunque siete in grado quanto me di giudicare sulla nostra situazione. Due eserciti nemici, uno da Roma, l'altro dalla Gallia, ci sbarrano il passo; rimanere ancora in queste posizioni, quand'anche ce ne bastasse l'animo, ci è reso impossibile dalla mancanza di grano e di tutto il resto, ovunque si voglia andare dobbiamo aprirci la via con le armi. Per questo, dunque, vi esorto a star forti e preparati e, quando verrà il momento della battaglia, ricordatevi che ricchezza, onore, gloria, e insieme la libertà e la patria li tenete voi nelle vostre mani. Se si vince tutto diventa sicuro: abbondanza di vettovaglie, accoglienza aperta da colonie e municipi. Se la paura ci farà ripiegare tutto ci diventerà contrario: nessun luogo, nessun amico proteggerà colui che non seppe proteggersi con le armi. inoltre, o soldati, essi non si trovano nella necessità di combattere in cui ci troviamo noi: noi si lotta per la patria, per la libertà, per la vita, per essi è completamente indifferente combattere per lo strapotere di pochi. E dunque piombate loro addosso tanto più audacemente memori dell'antica virtù. Molti di voi avrebbero potuto trascinare la vita in un esilio infamante, altri dopo la perdita dei loro beni avrebbero potuto attendere in Roma l'elemosina altrui, ma l'una e l'altra soluzione giudicaste disonorevole e intollerabile per un vero uomo, perciò avete scelto di seguir questa. Ma occorre audacia per uscirne: solo chi vince cambia la guerra con la pace. Sperare di salvarsi con la fuga, distogliere dal nemico le armi che ci proteggono, è il colmo della follia. In un combattimento il pericolo maggiore è sempre per chi maggiormente teme: l'audacia è come un baluardo. Quando io guardo a voi, o soldati, quando considero il vostro passato, l'animo mio si riempie di speranza nella vittoria. Me ne stanno garanti i vostri sentimenti, l'età, il vostro merito e in più la necessità che rende forti anche i pavidi. Del resto l'angustia dello spazio in cui siamo ci premunisce da un accerchiamento da parte del nemico tanto più numeroso. E se la sorte sarà malignamente avversa al vostro valore, procurate di non morire invendicati, di non lasciarvi catturare e massacrare a guisa di bestiame, e invece, combattendo da forti, di lasciare al nemico una vittoria che costi lacrime e sangue.»
Catilina lasciò scappare i cavalli (per meglio sottolineare che non si sarebbe mai ritirato), ed attese l'arrivo delle legioni di Roma. L'esercito del proconsole della Macedonia Gaio Antonio Ibrida, che era in quei giorni a Roma, fu mandato in Etruria per chiudere definitivamente i conti con Catilina.
Battaglia
modificaI due eserciti del Senato riuscirono a coordinare inaspettatamente bene la loro avanzata militare, tanto da arrivare contemporaneamente a Pistoia e poter affrontare il nemico a forze unite. Il piano originale era di dare a Gaio Antonio Ibrida il comando supremo dell'esercito, ma questo addusse una ferita a una gamba e dovette consegnare il comando al suo legato Marco Petreio, il quale aveva come luogotenente a sua volta Publio Sestio.[1]
Il primo attacco delle truppe di Petreio fu diretto contro il centro delle linee nemiche. A causa della grande maggioranza dei legionari pro-Senato, le truppe di Catilina furono respinte. Catilina ordinò allora di attaccare i fianchi del nemico con frecce e lance, che costarono la vita a molti dei legionari di Petreio. Dopo una breve battaglia, però, le truppe di fanteria di Catilina si arresero e si ritirarono. Lo storico romano Sallustio scrisse che, vedendo la battaglia persa, Catilina si precipitò tra le file del nemico con la spada alzata, dove trovò la morte dopo una breve battaglia.[2]
Conseguenze
modificaCatilina cadde assieme ai suoi, e, con il massacro dei suoi effettivi, calò il sipario sulla sua congiura.
Note
modifica- ^ Sallustio, Bellum Catilinae 59, 4.
- ^ Sallustio, Bellum Catilinae 60, 7.