Dite (città)
Dite è una città immaginaria che Dante Alighieri descrive nella cantica dell'Inferno nella Divina Commedia. Comprende i cerchi dal sesto al nono.
Descrizione
modificaQuando Dante e Virgilio, il suo maestro, giungono al cospetto della città di Dite: "Il foco etterno ch’entro l’affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno"[1] questa appare loro come una città recintata da alte mura collegate da diverse torri. La città è circondata dalla palude dello Stige descritta come: "Questa palude che ’l gran puzzo spira, cigne dintorno la città dolente, u’ non potemo intrare omai sanz’ira"[2].
A guardia della città ci sono dei diavoli che impediscono a Dante di entrare e acconsentono a parlare solamente a Virgilio:
«
- Io vidi più di mille in su le porte
- da ciel piovuti, che stizzosamente
- dicean: "Chi è costui che sanza morte
- va per lo regno de la morta gente?".
- E ’l savio mio maestro fece segno
- di voler lor parlar segretamente.
- Allor chiusero un poco il gran disdegno
- e disser: "Vien tu solo, e quei sen vada
- che sì ardito intrò per questo regno.»
Sugli spalti appaiono poi le Erinni e Virgilio avverte Dante:
«
- "Guarda", mi disse, "le feroci Erine.
- Quest’è Megera dal sinistro canto;
- quella che piange dal destro è Aletto;
- Tesifón è nel mezzo"; e tacque a tanto.
- Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
- battiensi a palme e gridavan sì alto,
- ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
- "Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto",
- dicevan tutte riguardando in giuso;
- "mal non vengiammo in Tesëo l’assalto".
- "Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
- ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
- nulla sarebbe di tornar mai suso".»
A un certo punto viene in loro soccorso qualcuno che ritengono sia un "messaggero" mandato dal cielo:
«
- Li occhi mi sciolse e disse: "Or drizza il nerbo
- del viso su per quella schiuma antica
- per indi ove quel fummo è più acerbo".
- Come le rane innanzi a la nimica
- biscia per l’acqua si dileguan tutte,
- fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,
- vid’io più di mille anime distrutte
- fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
- passava Stige con le piante asciutte.
- Dal volto rimovea quell’aere grasso,
- menando la sinistra innanzi spesso;
- e sol di quell’angoscia parea lasso.
- Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
- e volsimi al maestro; e quei fé segno
- ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.
- Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
- Venne a la porta e con una verghetta
- l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
- "O cacciati del ciel, gente dispetta",
- cominciò elli in su l’orribil soglia,
- "ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
- Perché recalcitrate a quella voglia
- a cui non puote il fin mai esser mozzo,
- e che più volte v’ ha cresciuta doglia?
- Che giova ne le fata dar di cozzo?
- Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
- ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo".
- Poi si rivolse per la strada lorda,
- e non fé motto a noi, ma fé sembiante
- d’omo cui altra cura stringa e morda
- che quella di colui che li è davante;
- e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
- sicuri appresso le parole sante.
- Dentro li ’ntrammo sanz’alcuna guerra;
- e io, ch’avea di riguardar disio
- la condizion che tal fortezza serra,
- com’io fui dentro, l’occhio intorno invio:
- e veggio ad ogne man grande campagna,
- piena di duolo e di tormento rio.»
Una volta entrati, nella parte più profonda trovano i fraudolenti, gli eretici, gli epicurei e coloro che si sono macchiati di peccati di violenza contro il prossimo:
«
- "Figliuol mio, dentro da cotesti sassi",
- cominciò poi a dir, "son tre cerchietti
- di grado in grado, come que’ che lassi.
- Tutti son pien di spirti maladetti;
- ma perché poi ti basti pur la vista,
- intendi come e perché son costretti.
- D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,
- ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale
- o con forza o con frode altrui contrista.
- Ma perché frode è de l’uom proprio male,
- più spiace a Dio; e però stan di sotto
- li frodolenti, e più dolor li assale.
- Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
- ma perché si fa forza a tre persone,
- in tre gironi è distinto e costrutto.
- A Dio, a sé, al prossimo si pòne
- far forza, dico in loro e in lor cose,
- come udirai con aperta ragione.
- Morte per forza e ferute dogliose
- nel prossimo si danno, e nel suo avere
- ruine, incendi e tollette dannose;
- onde omicide e ciascun che mal fiere,
- guastatori e predon, tutti tormenta
- lo giron primo per diverse schiere.»
Prosegue poi il viaggio negli altri gironi dell'Inferno.
Note
modifica- ^ Inferno, canto VIII versi 72-75.
- ^ Inferno, canto IX versi 31-33.
Collegamenti esterni
modifica- Vittorio Russo, Dite, in Enciclopedia Dantesca, Treccani, 1970.