Enrico VII di Hohenstaufen

duca di Svevia, re di Sicilia e re dei Romani
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Enrico VII di Hohenstaufen (Palermo, 1211Martirano, 10 febbraio 1242), figlio di Federico II di Svevia, fu re dei Romani dal 1220 al 1235.

Enrico VII di Hohenstaufen
Sigillo personale del re Enrico VII di Hohenstaufen
Re dei Romani
Stemma
Stemma
In carica23 aprile 1220 –
luglio 1235
Incoronazione8 maggio 1222
PredecessoreFederico II
SuccessoreCorrado IV
Re di Sicilia
come Enrico II
In carica1212 –
1217
Incoronazionemarzo 1212
PredecessoreFederico II
SuccessoreFederico II
Duca di Svevia
In caricadicembre 1216 –
luglio 1235
Incoronazionefebbraio 1217
PredecessoreFederico II
SuccessoreCorrado IV
NascitaPalermo, 1211
MorteMartirano, 10 febbraio 1242
Luogo di sepolturaCosenza
Casa realeHohenstaufen
PadreFederico II di Svevia
MadreCostanza d'Aragona
ConsorteMargherita di Babenberg
FigliFederico
Enrico

Biografia

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Figlio primogenito di Federico II e di Costanza d'Aragona, nel 1212 a un anno d'età fu incoronato re di Sicilia come coreggente del regno, nel 1220, all'età di soli nove anni, fu fatto eleggere re dei Romani, sotto la tutela dell'arcivescovo di Colonia Engelberto di Berg, e fu incoronato nel 1222. Sposò Margherita d'Austria, da cui ebbe due figli: Federico ed Enrico.

 
Incoronazione di Enrico VII a Würzburg
 
Morte di Enrico VII

Per volere del padre crebbe nella Germania feudale, a corte, fra i cattivi consigli e lontano dalla famiglia. Egli fu posto sotto la tutela dell'arcivescovo di Colonia Engelberto e, dopo il suo assassinio, fu posto sotto la tutela del duca di Baviera Ludovico I[1]. La sua presenza sul trono tedesco era diventata una nuova speranza per Federico di realizzare il suo sogno di unire concretamente il regno dei Romani con quello di Sicilia.

Ma tutte le prospettive svanirono quando Enrico, maggiorenne, si dimostrò irrequieto e sovversivo. Infatti Enrico aveva sviluppato nei confronti del padre un odio lacerante e profondo acuito dalla lontananza. Un altro motivo di scontro verteva sul desiderio di Enrico di divorziare dalla moglie per sposare il suo amore giovanile, Agnese di Boemia, figlia del re Ottocaro I, la quale, data la situazione, decise di diventare suora, lasciando però dietro di sé i dissapori riguardo alla vicenda[1]. Lo scontro tra padre e figlio fu quindi inevitabile quando Enrico, spinto dall'aristocrazia tedesca, si rese promotore di una lotta serrata contro il regime imperialistico di Federico che sfavoriva lo sviluppo delle terre tedesche.

Dopo le varie raccomandazioni del padre, nel 1232 Enrico fu chiamato ad Aquileia al cospetto di Federico; secondo J.F. Bohmer (Regesta imperii, pag. 761, Innsbruck 1881) l'incontro avvenne a Cividale del Friuli. Tornato in Germania si comportò come se nulla fosse accaduto e riprese a spargere i semi della discordia; finché papa Gregorio IX, i cui interessi coincidevano allora con quelli dell'Impero, nel 1234 gli lanciò l'anatema, giustificandolo con presunti atteggiamenti in favore dell'eresia.

Alla fine del 1234 Federico apprese con costernazione che Enrico si era alleato con i suoi più temibili nemici, la Lega Lombarda. Tutto ciò voleva dire alto tradimento; Enrico fu richiamato a Wimpfen, dove nel luglio del 1235 fu deposto e condannato a morte dopo un processo sommario. Solo in un secondo tempo Federico fece commutare la condanna in carcere a vita. Enrico, che nel frattempo aveva contratto la lebbra lepromatosa, iniziò un lungo peregrinare per varie fortezze del Regno di Sicilia, tra cui quella di Rocca San Felice[2]. Morì il 10 febbraio 1242 a Martirano, in Calabria, durante un trasferimento da prigione a prigione, cadendo da un dirupo a seguito di un probabile suicidio, e fu sepolto in un sarcofago romano nel Duomo di Cosenza.

 
Sarcofago Enrico VII; Duomo di Cosenza

Indagini paleopatologiche

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Il sarcofago, che era stato scoperto nel 1934 in occasione di lavori di restauro della cattedrale[3]; le frammentarie informazioni sulle modalità di sepoltura di Enrico VII, hanno reso incerta l'attribuzione dei resti presenti[4]. La cassa rettangolare del sarcofago, scolpita su tre lati, presenta sulla fronte uno degli episodi più noti del mito di Meleagro: la caccia al cinghiale Calidonio (Bochicchio 2007). La scena figurata è dominata dall'impresa della caccia e il personaggio di Meleagro, nell'atto di infliggere al cinghiale il colpo mortale, e che è posto al centro della composizione[4].

Nel 1998, i resti di Enrico VII sono stati sottoposti a un esame paleopatologico condotto da un'équipe guidata da Gino Fornaciari, dell'Università di Pisa, e da Pietro De Leo, storico dell'Università della Calabria.

L'esame ha rivelato resti appartenenti a un uomo alto circa 1,66 m, dalla struttura fisica vigorosa e dai forti attacchi muscolari. Lo scheletro rivelava gli esiti di traumi e sovraccarichi dovuti probabilmente alla pratica dell'equitazione e i segni di un'antica lesione secondaria derivante da un trauma al ginocchio sofferto in gioventù: la deformità rotulea era in grado di indurre quella zoppia che è una delle poche caratteristiche note dell'aspetto fisico di Enrico, di cui le cronache tramandano l'epiteto di sciancato.

L'esame del cranio e delle estremità degli arti ha evidenziato chiaramente la facies leprosa, frutto di una lebbra lepromatosa in discreto stato di avanzamento, contratta alcuni anni prima del decesso. Lo sfiguramento fisiognomico era così severo da costringere la persona a un forzato isolamento: deve essere quindi respinta la presunta crudeltà di Federico II nella segregazione del figlio e va allontanato, a parere degli autori, anche il sospetto di omicidio.

Le ambiguità sorte sulla morte del re sono scaturite da una traduzione inesatta della frase latina “ex improvviso cadens infirmatus obiit” riportata dalle fonti di Riccardo di San Germano, Salimbene da Parma e dal cosiddetto Anonimo Cronista Umbro.

La frase tradotta letteralmente significa "cadendo improvvisamente malato, morì", e non, come è stato finora sostenuto, "cadendo da cavallo, morì".

Araldica

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Stemma degli Hohenstaufen.

Almeno quattro sono le insegne araldiche che è possibile ricondurre a Enrico. La prima è senza dubbio l'arme di Svevia, ai tre leoni passanti, che è presente su uno dei suoi sigilli e che egli, plausibilmente, adoperò, dal 1216 al 1220, in qualità di duca di Svevia[5]. Contraddistinti da una «particolarità iconografica degna di nota», i leoni del sigillo sono presenti su scudo e vessillo retti da un cavaliere, che rappresenta Enrico. I tre animali araldici, infatti, presentano la testa rivoltata, ovvero, mentre il corpo è orientato verso la destra araldica, il capo dei leoni è volto verso la sinistra araldica. Non è superfluo specificare che tale peculiarità è propria di tutti e tre i leoni dello scudo, mentre, nel vessillo, caratterizza solo la prima delle tre figure[6]. Oltre allo stemma rappresentativo della dignità ducale, è ipotizzabile che il re dei Romani abbia utilizzo anche lo scudo dal campo d'oro, caricato dell'aquila al volo abbassato di nero, quale insegna atta a rappresentare la dignità reale[5].

Uno stemma partito d'oro e di verde, all'aquila bicipite di nero, è associato a Enrico, dal monaco benedettino e cronista inglese Matthew Paris, nella sua Chronica Majora, importante manoscritto medievale corredato da numerose miniature di carattere araldico o, comunque, prearaldico. La scelta degli smalti operata dal Paris per tale arme potrebbe essere spiegata facendo ricorso all'interpretazione che lo storico e araldista francese Michel Pastoureau fornisce riguardo a tale combinazione cromatica, nel contesto culturale medievale. Secondo il Pastoureau, infatti, il verde, in particolare, indicherebbe la "perturbazione dell'ordine stabilito", la qual cosa ben simboleggerebbe la biografia di Enrico e, nello specifico, il tradimento verso il proprio padre e l'essersi contrapposto all'autorità imperiale[5].

Ancora il Paris, in questo caso, però, nell'Historia Anglorum, collega, sempre a Enrico, un altro stemma partito, nel primo, d'oro, all'aquila bicipite di nero uscente, e, nel secondo, di rosso, alla croce ancorata d'argento uscente, con il braccio inferiore più lungo degli altri[7]. L'arme così composta può essere considerata sia insegna atta ad alludere al titolo di Rex Romanorum (poiché derivata dall'aquila bicipite in campo d'oro), sia un simbolo imperiale (poiché derivata dal Signum Imperii)[5]. In particolare, il Signum Imperii si configura come un «antico segno Imperiale» strettamente connesso al Vexillum Crucis, la cui origine sarebbe da individuare nelle rappresentazioni del Cristo risorgente, che impugna un gonfalone che è, appunto, di rosso, alla croce ancorata d'argento[8].

«partito: nel 1º, d'oro, alla mezz'aquila bicipite col volo abbassato di nero, movente dalla partizione (Impero); nel 2º, di rosso alla mezza croce ancorata scorciata d'argento, movente dalla partizione (Signum Imperii)[9]»

Enrico poeta

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Viene attribuita occasionalmente una Canzone dal Mongitore[10] e dal Crescimbeni[11], basato su osservazioni fornite dall'erudito Apostolo Zeno[12] il cui incipit noto è:

«S'eo avessi temenza (...)»

Francesco Saverio Quadrio, informatosi con lo stesso Zeno, dubitavano entrambe sulla paternità del verso (1741) e che la firma manoscritta di Enrico sia da ritenersi aggiunta d'altra mano. A fare il punto sulla vicenda fu Girolamo Tiraboschi (1795)[13].

Matrimonio e figli

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Sposò Margherita d'Austria, figlia di Leopoldo VI di Babenberg della dinastia Babenberg, e della principessa bizantina Teodora Angelina, della dinastia degli Angeli. Essi ebbero:

Ascendenza

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Genitori Nonni Bisnonni Trisnonni
Federico Barbarossa Federico di Svevia  
 
Giuditta di Baviera  
Enrico VI di Svevia  
Beatrice di Borgogna Rinaldo III di Borgogna  
 
Agata di Lorena  
Federico II di Svevia  
Ruggero II di Sicilia Ruggero I di Sicilia  
 
Adelasia del Vasto  
Costanza d'Altavilla  
Beatrice di Rethel Gunther di Rethel  
 
Beatrice di Namur  
Enrico VII di Germania  
Raimondo Berengario IV di Barcellona Raimondo Berengario III di Barcellona  
 
Dolce I di Provenza  
Alfonso II d'Aragona  
Petronilla d'Aragona Ramiro II d'Aragona  
 
Agnese d'Aquitania  
Costanza d'Aragona  
Alfonso VII di León Raimondo di Borgogna  
 
Urraca di Castiglia  
Sancha di Castiglia  
Richenza di Polonia Ladislao II l'Esiliato  
 
Agnese di Babenberg  
 
  1. ^ a b Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore, collana Elefanti Storia, traduzione di Gianni Pilone Colombo, Milano, Garzanti, pp. 382-383, ISBN 978-88-11-67643-0.
  2. ^ Marina Villanacci, Il Castello di Rocca San Felice tra storia e leggenda, su infoirpinia.it, 3 dicembre 2021. URL consultato il 27 aprile 2022.
  3. ^ Esplorazioni cosentine, La tomba del re ribelle, su esplorazionicosentine, 22 marzo 2013. URL consultato il 23 dicembre 2022.
  4. ^ a b Cosenza, Cattedrale, sarcofago con Meleagro alla caccia calidonia, su Prosgetto HistAntArtSi.eu. URL consultato il 23 dicembre 2022.
  5. ^ a b c d Hubert de Vries.
  6. ^ Gianantonio Tassinari, p. 289.
  7. ^ Alessandro de Troia.
  8. ^ Angelo Scordo, pp. 129-130.
  9. ^ Angelo Scordo, p. 115.
  10. ^ (LA) Antonino Mongitore, Bibliotheca Sicula sive De scriptoribus Siculis: qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt, notitiae locupletissimae ... ..., vol. I, Panormi, Ex typographia Didaci Bua, 1707, p. 269.
  11. ^ Mario Crescimbeni, Commentari, 1702, tomo 2, par. 2, p. 15
  12. ^ Lettere di Apostolo Zeno cittadino veneziano istorico e poeta cesareo. Nelle quali si contengono molte notizie attinenti all'istoria letteraria de' suoi tempi; e si ragiona di libri, d'iscrizioni, di medaglie, e d'ogni genere d'erudita antichita ..., 1752, tomo 2, p. 46.
  13. ^ Storia della letteratura italiana: dall'anno MCLXXXIII fino all'anno MCCC, tomo 4, 1795, p. 361
  14. ^ Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore, collana Elefanti Storia, traduzione di Gianni Pilone Colombo, Milano, Garzanti, p. 645, ISBN 978-88-11-67643-0.

Bibliografia

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  • Angelo Scordo, Società Italiana di Studi Araldici, Note di araldica medievale – Una "strana" arma di "stupor mundi", Atti della Società Italiana di Studi Araldici, 11° Convivio, Pienerolo, 17 settembre 1994, Torino, Società Italiana di Studi Araldici, 1995, pp. 105-145.
  • Gianantonio Tassinari, Cenni e riflessioni sulle insegne degli Hohenstaufen, in Nobiltà, anno XIV, nn. 78-79, Milano, Federazione delle Associazioni Italiane di Genealogia, Storia di Famiglia, Araldica e Scienze Documentarie, maggio-agosto 2007, pp. 283-330.

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