Luigi Nada (Torino, 8 giugno 1910Gusen, 10 aprile 1944) è stato un operaio, attivista antifascista italiano.

La Pietra d'inciampo dedicata a Luigi Nada

Due eventi rendono la biografia di Luigi Nada importante e ricorrente nella letteratura memorialistica autobiografica degli ex-deportati di Mauthausen: la partecipazione allo sciopero del 1-8 marzo 1944 e le circostanze della morte, un vero e proprio "martirio" subito il 10 aprile 1944 a Gusen.

Biografia

modifica

Chi era Luigi Nada?

modifica

Luigi Nada lavorava negli stabilimenti torinesi della Aeronautica d'Italia e abitava con la moglie e i due figli a Torino al n°105 di via Bertolla: era stato arrestato e deportato come organizzatore dello sciopero del 1 marzo 1944 che fu la prima manifestazione di aperta ribellione al nazifascismo da parte della totalità dei lavoratori piemontesi. Arrestato il 13 marzo 1944, fu deportato e giunse a Mauthausen il 20 marzo 1944. Classificato con la categoria Schutz (prigioniero politico) con il primo numero di matricola 59012. Mestiere dichiarato "saldatore autogeno". Fu trasferito a Gusen dove venne assassinato il 10 aprile 1944 a causa di un fallito tentativo di fuga[1].

Le cause dell'arresto

modifica

Nell'agosto del 1925 il governo Mussolini decretò l'istituzione del Ministero dell'aeronautica, atto che rendeva chiaro agli occhi della Fiat l'interesse statale per lo sviluppo di una produzione aeronautica sia nel campo militare sia in quello civile.

La fabbrica di Torino in Corso Italia, l'odierno Corso Francia, al confine con il Comune di Collegno, era uno stabilimento all'avanguardia, specializzato nella costruzione di velivoli da combattimento e civili e di motori destinati al mondo dell'aviazione. Si estendeva per 31.000 metri quadrati tra campo volo, torrette, palazzine per piloti, stazioni radio, piloni per la segnalazione notturna e la fabbrica stessa, composta da una sezione aeronautica, una meccanica e una scuola allievi.

Negli anni quaranta, con la seconda guerra mondiale, lo stabilimento ebbe un grosso incremento del lavoro al punto che le maestranze arrivarono a un totale di 4.500 operai. Le condizioni di lavoro divennero sempre più dure: gli operai furono costretti a coprire turni dalle 6:00 del mattino fino alle 21.00 di sera. Questo portò a un malcontento generale che dopo mesi di fatiche e di bombardamenti da parte degli alleati, che vedevano la fabbrica come un'importante base nazifascista da eliminare, si ribellarono proclamando lo sciopero, l'8 marzo 1944; tra gli organizzatori,una quarantina di lavoratori-sindacalisti, vi era anche Luigi Nada. Nonostante la minaccia dei dirigenti di mandare al fronte a combattere chi si fosse rifiutato di riprendere a lavorare, lo scioperò proseguì fino all'11 marzo, con l'arresto dei presunti quaranta promotori della ribellione. Con essi furono solidali i compagni di lavoro che con collette e sottoscrizioni raccolsero per le loro famiglie la non trascurabile somma di 500 lire. L'accaduto determinò un rafforzamento del pensiero antifascista anche attraverso la distribuzione illegale di stampa clandestina come “L'Unità” e “Il Grido di Spartaco”.

La deportazione

modifica

Luigi Nada fu deportato con il convoglio partito da Bergamo il 16 marzo 1944 con destinazione Mauthausen, dove giunse il 20 marzo. La sua presenza è attestata nella lista dei deportati redatta da Italo Tibaldi nel Trasporto numero 34.

In Codice Sirio di Ferruccio Maruffi sono ricostruite le prime impressioni dei deportati al loro arrivo a Mauthausen:

«All'improvviso vengono aperti i portali dei vagoni e l'aria gelida penetra all'interno degli abitacoli attenuando gli odori insopportabili che hanno imperversato per i giorni e le notti del lunghissimo viaggio. [...] Il primo ordine impartito da un'SS è quello di scendere dai carri e mettersi in fila per cinque in silenzio. Avevano subito capito che qualcosa stava trasformando la loro personalità di essere civili. Con il trascorrere del tempo il freddo, la fame e la stanchezza si mescolarono tra di loro. In pochi minuti i carri si svuotano e il corteo è pronto a raggiungere la destinazione finale. Basta alzare gli occhi per leggere il nome della stazione ferroviaria: Mauthausen. “Accidenti!” scappa detto ad un deportato “C'era già stato mio padre prigioniero nell'altra guerra!”, la lunga colonna dei seicento uomini si infila nelle strade strette del paese. I deportati iniziano la salita e marciano ordinatamente in fila, come è stato loro imposto. Sono affiancati dai militi SS e da cani lupo. Il percorso diviene sempre più tortuoso, la fatica e le conseguenze del viaggio disastroso cominciano a farsi sentire. Improvvisamente si sente uno sgradevole odore e si scorge una grande nuvola, più grigia che mai. Mentre i deportati si avvicinano alla destinazione, la nuvola diventa fumo.[...] I deportati non sanno ancora, mentre la seguono con lo sguardo che quando la nuvola sarà più piccola e più nera, lassù ci sarà un camino [...]. Qualche centinaio di metri ancora, [...] si scorgono baracche di legno e creature macilente appena vestite con una camicia e una mutanda a strisce grigie e blu[...]. Più avanti, sulla strada che conduce alle mura, ancora altri uomini spingono carri colmi di pietre e di terra e su di essi incombono essere urlanti che impugnano un bastone di gomma. La colonna dei deportati passa accanto a loro e poi fa il suo ingresso nel campo.[2]»

Grazie alle testimonianze possiamo ricostruire la condizione dei deportati e le loro mansioni nel campo:

«"I nuovi arrivati erano tenuti in strettissima segregazione nel recinto della baracca, sotto la sorveglianza di altri detenuti, delinquenti comuni tedeschi , cui erano affidati tutti i servizi del campo. I 600 uomini tramutati in schiavi, venivano portati al mattino verso il luogo del lavoro e riportati la sera nella baracca n.16, ove avevano a disposizione tre cassoni a tre piani sovrapposti, ciascuno dei quali doveva bastare per quattro persone".[3]»

«"Solo qualcuno era prescelto per lavori più qualificati, alla gettata di un pilastro o all'armatura di un tetto, e noi li guardavamo con invidia. A mezzogiorno il lavoro, che continuava dalle 6, non s'interruppe: l'orario unico festivo continuava sino alle 14, e dopo otto ore il fischietto dell'adunata ci richiamò per la conta, prima di rientrare.”[4]»

. Come trascritto nell'Intervista del 1982 all'ex deportato Renato Salvetti “Nada Luigi questo qui, è di Torino; questo qui, dato che faceva un po' di dolmen, cioè un po' di interprete aveva più libertà di noialtri a girare” quindi Luigi Nada era uno dei deportati assegnato a “lavori più qualificati”.

9 Aprile 1944: il giorno dell'agonia e la morte

modifica

Così Nino Bonelli racconta l'accaduto:

«L'alba del 9 aprile, livida nel raggio spettrale dei riflettori che dalle torrette di sorveglianza abbagliavano ogni recesso del campo, si era levata gravida di minacciose incognite per i 600 torinesi che attendevano, nel cortiletto della baracca n.16, la conta del soldato SS prima d'avviarsi al lavoro. Qualcuno volle abbozzare un sorriso ed un augurio: Buona Pasqua, ma il sorvegliante lo zittì. Alle ore 12 il fischietto dell'adunata ci richiamò per la conta, prima di rientrare. Solitamente questa operazione era molto lunga, ma quella domenica di Pasqua pareva non finire più: i sorveglianti passavano le loro mani sulle nostre spalle. D'un tratto tutto fu chiaro: qualcuno aveva pensato di sottrarsi all'adunata, nascondendosi per poi tentare di fuggire. Ben presto l'uomo fu ritrovato sotto alcune assi di legno: Luigi Nada. Luigi lavorava in un piccolo edificio dell'SS isolato dal resto del cantiere, con il privilegio di sopportare meno sacrifici e godere più libertà. Si era aggrappato alle travature d'un tetto ove era riuscito a nascondere del traliccio ricavato dai sacconi che fungevano da pagliericcio nel pomeriggio domenicale; contava di cucirsi un vestito per sostituire la divisa a righe del forzato e tentare la fuga al tramonto. Nel non breve percorso da Gusen 2 a Gusen 1 era stato braccato dai cani. Era caduto e si era rialzato più volte sotto le inaudite percosse.[5]»

Anche l'Intervista all'ex deportato Renato Salvetti (trascritta nell'Archivio della Deportazione, 1982) ripercorre il tragico accaduto:

«Mi ricordo che a Pasqua del 1944...è venuto un contrordine del comando Furher di sospendere di lavorare, di ritornare nel campo, e noialtri tutti ammucchiati lì, ci hanno fatto il controllo, l'appello, e mancava uno e, .. non riuscivano a trovarlo, allora sti tedeschi hanno sguinzagliato i cani, i cani lupo, in maniera che hanno trovato questi qui, un certo Nada Luigi questo qui, è di Torino questo qui dato che faceva un po' di dolmen, cioè un po' di interprete aveva più libertà di noialtri a girare. Aveva scavato una specie di tunnel sotto i reticolati, per poter scappare, tanto l'hanno preso, l'hanno portato lì davanti a noi, sto buonuomo aveva gli occhi che gli uscivano fuori dalle orbite, a suon di bastonate che aveva preso, non poteva più stare in piedi, e l'abbiamo portato nel campo. Quando siamo arrivati nel campo a Gusen I°, sti criminali tedeschi hanno voluto che prendessimo questo qua e lo portassimo nel Wassermann, lì c'era una botte grossa piena d'acqua, gli hanno fatto immergere la testa in quell'acqua in maniera che lui buonuomo man mano che si sentiva soffocare alzava la testa e gli piantavano delle "patele" sulla testa, lo hanno fatto morire affogato, "morto affogato"! Poi l'hanno lasciato fuori esposto per dare buon esempio perché nessuno cercasse di evadere, di fare quello che aveva fatto lui, perché non facesse la stessa fine. Ma era una cosa incredibile, uno non poteva, uno non può immaginarselo che noialtri tutte le sante sere che arrivavi dovevi portare i morti nel campo perché tanti, tanti morivano per il tifo petecchiale, per il deperimento, l'inedia, le bastonate, le sevizie e lì alla sera li portavano nel crematorio, li ammazzavano e li cremavano.[6]»

Pio Bigo riporta in una testimonianza le motivazioni che Luigi Nada, appena catturato, esprime per spiegare il suo tentativo di fuga :

«"Mi chiamo Nada Luigi, sono di Torino, non riuscivo più a sopportare, volevo mettere fine a questo calvario, ho cercato di nascondermi per scappare, a casa ho due figli, sentivo la nostalgia, il bisogno di raggiungerli, aiutatemi!"[7]»

La poesia il martire di Pasqua di Quinto Osano testimonia lo sgomento dei prigionieri:

«Dov'eri buon Dio? Quando i kapò con botte, tentarono, urlando minacce, “italiani fahnenfluter morgen crematorium”, di farcelo affogare in quel grosso barile? Dov'eri buon Dio? quando i kapò, visti inutili i loro tentativi con noi, lo presero e gli misero la testa sott'acqua? Fu allora che sentii il suo ultimo bisbiglio, “mio Dio, i miei figli”! Il suo fu un vero martirio, la sua sola colpa l'immenso amore per la casa, la moglie, i figli. La nostalgia fu più forte di lui lo portò alla follia di tentare l'impossibile fuga. Ora penso e ripenso a quel giorno lontano mi chiedo ... Dov'era il tuo buon Dio quel giorno di Pasqua? Forse era a Belsen o forse ad Auschwitz? Oppure a Buchenwald o forse a Dachau? Di una cosa sono certo quel giorno di Pasqua, il tuo buon Dio non era con noi.[8]»

Anche Ferruccio Maruffi , compagno di viaggio e di campo di Luigi ricorda l'amico nel libro La pelle del latte e restituisce l'associazione con il martirio, percepita dagli stessi testimoni: "Emi, notoriamente mangiapreti, che ha ancora gli occhi, manco a dirlo, umidi di pianto, interviene bruscamente e ammonisce, nel dialetto che gli è più congeniale: "Ricordiamoci che, proprio la domenica di Pasqua di due anni fa, Luigi era stato straziato e ucciso come Cristo, anche se i nazisti, invece di una croce, si erano serviti di un barile colmo d'acqua. Da quel giorno abbiamo visto ammazzare migliaia di uomini in modi diversi, le croci ne rappresentano il martirio, credenti o no siano stati".[9]"

L'atroce morte che per i carnefici doveva essere monito ed esempio per coloro i quali avrebbero potuto pianificare la fuga divenne invece il martirio di un uomo che tenta di riprendersi la propria umanità a costo della morte. L'eccezionalità del suo martirio emerge ancora dalla testimonianza di Maruffi:

«"Il suo corpo distrutto e in fin di vita era stato posto al centro di questo cortiletto e adesso i deportati sono costretti a girargli attorno a passo cadenzato, perché potessero rendersi conto di cosa poteva succedere a coloro che avessero trasgredito ai loro ordini. Aveva la casacca a brandelli, era scalzo, e le mani e i piedi piagati, il viso sfigurato e perdeva sangue dalla bocca semiaperta. I suoi grandi occhi spalancati sembravano fissati, ma forse le sue pupille erano già spente. Il comandante del campo presenzia al suo calvario con altri gerarchetti minori e improvvisa un discorso, avvertendo che è regola del lager condannare a morte tutti i componenti di un blocco, se qualcuno che ne fa parte tenta di fuggire. Tuttavia offre un'alternativa, “ Nei gabinetti” dice “è pronto un mastello d'acqua, uccidete il vostro compagno, immergendogli la testa e non se ne parli più. Per questa volta” ha appena finito di parlare che da quel mucchio di ossa e sangue che è ormai Luigi si leva un filo di voce a supplicare gli amici di salutare per lui moglie e figli. Le sue parole invitano alla fermezza i compagni e, riecco il sindacalista clandestino Emi, che si oppone “Non se ne fa niente!” . Così i kapò si affrettano a costringere a frustate alcuni deportati italiani a prenderlo per le gambe e ad immergerlo nel barile a testa in giù, fino a toccare il fondo. Al comando delle SS “Auf!”, oppure “Ab!”, i compagni a stento lo tiravano su un attimo; allora il poveretto implorava “Pietà ho due figli”, poi all'ordine delle SS “Runter!” veniva di nuovo immerso. Questa scena durò fino a quando il povero Nada si spense. È sera. Luigi, il deportato che voleva evadere da un campo di sterminio, non c'è più. Nessuno dei deportati chiusi nelle baracche avverte la necessità di parlare."[10]»

  1. ^ A cura di G. D'Amico, G. Villari e F. Cassata, Il libro dei deportati, ricerca del Dipartimento di storia dell'Università di Torino diretta da B. Mantelli, N. Tranfaglia, vol. I, I deportati politici 1943-1945, Milano, Mursia, 2009, p. tomo 2, 1052.
  2. ^ Ferruccio Maruffi, Codice Sirio. I racconti del Lager, 1986, Edizioni Piemme, Casale Monferraro, pp. 18-21
  3. ^ Nino Bonelli,L'oblio è colpa, "Il martire di Pasqua"
  4. ^ Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette lager, 1998, Edizioni dell'Orso, Alessandria
  5. ^ Nino Bonelli, Il martire di Pasqua, s.d., ANED, Milano
  6. ^ Archivio della deportazione piemontese, Archivio Istoreto, 1982
  7. ^ Pio Bigo, op. cit., p. 40
  8. ^ Quinto Osano, Perché ricordare. Ricordi e pensieri di un ex deportato, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1992, pp.40-41, versi finali della poesia Il martire di Pasqua
  9. ^ Ferruccio Maruffi, La pelle del latte, Torino, Euredit, 1999, p. 106.
  10. ^ Ferruccio MaruffiCodice Sirio, op. cit., pp. 40-41

Bibliografia

modifica
  • Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice – Memoria di sette lager, Edizioni dell'Orso, Alessandria 1998
  • Ferruccio Maruffi, Codice Sirio. I racconti del Lager, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1986
  • Ferruccio Maruffi, La pelle del latte: i racconti del "dopo" lager, Euredit, Torino, 1999
  • Italo Tibaldi, Compagni Di Viaggio: Dall'Italia ai Lager Nazisti. I Trasporti Dei Deportati (1943-1945), FrancoAngeli, Milano 1994,
  • Italo Tibaldi, Compagni di viaggio. Dall'Italia ai Lager nazisti. I "trasporti" dei deportati 1943-45, Milano, Franco Angeli, Consiglio regionale del Piemonte-ANED, 1995,
  • Il libro dei deportati, ricerca del Dipartimento di storia dell'Università di Torino diretta da B. Mantelli, N. Tranfaglia, vol. I, I deportati politici 1943-1945, a cura di G. D'Amico, G. Villari e F. Cassata, Milano, Mursia, 2009
  • Quinto Osano, Perché ricordare. Ricordi e pensieri di un ex deportato IT 59022, Aned – Edizioni dell'Orso, Alessandria, 1992

Voci correlate

modifica

Altri progetti

modifica