Museo archeologico

museo che espone manufatti di epoca antica
Voce principale: Museo.

Il museo archeologico è una struttura di tipo museale che espone manufatti di epoca antica, comprendente in generale i reperti dalla preistoria all'età classica, sebbene spesso includa produzioni fino alla fine del XVIII secolo e talvolta anche oltre.

Una sala del Museo archeologico di Atene

Un museo archeologico contiene spesso opere dal valore collezionistico decontestualizzate e quasi mai provenienti dal sito d'esposizione, limitandosi ad essere un contenitore di antichità raccolte in diversi modi (acquisto, donazioni, appropriazioni a seguito di sequestro, confische, scambi, acquisto d'asta etc.). Solo in casi rari - specie nei musei archeologici di nuova generazione, a partire dal 1970 con il concetto di valorizzazione e la nascita dei "musei diffusi" - i reperti esposti provengono da scavi regolari effettuati presso lo stabile ospitante la raccolta, a differenza degli antiquaria che invece sono allestimenti provvisori o stabili che espongono i ritrovamenti effettuati in campagna di scavo.

Più recente è invece il concetto di "museo aperto", relativo a vaste aree archeologiche, come l'area archeologica di Teotihuacan, la villa del Casale presso piazza Armerina o gli scavi di Pompei.

Le radici del museo archeologico si trovano nelle collezioni private di facoltosi nobili o ricchi mercanti europei tra XV e XVII secolo, che amavano fare sfoggio di curiosità naturalistiche, rari oggetti d'arte e antichità varie presso ospiti importanti. La provenienza degli oggetti esposti derivava per lo più da acquisti in mercatini, fiere e solo più raramente da ritrovamenti occasionali e sporadici effettuati dal fondatore della stessa collezione.

Fin dal XVII secolo erano stati emanati i primi editti volti a impedire la distruzione e la dispersione dei capolavori e delle testimonianze del passato, in particolare i materiali che si raccoglievano a Roma, da parte dello Stato della Chiesa, con la previsione di severi controlli di polizia sulla conservazione e sul commercio di opere antichità e opere d'arte. Il corpo normativo da parte di tale stato è piuttosto ampio e voluminoso; in particolare il 7 aprile 1820 venne promulgato l'editto del Cardinale Pacca (sotto il pontificato di Pio VII), generalmente riconosciuto come il primo ed organico provvedimento legislativo di protezione dei beni artistici e storici che ispirò provvedimenti analoghi nel Regno di Napoli, in Toscana, nel Lombardo Veneto. Il Regno di Sardegna fu l'unico tra gli Stati che componevano l'Italia preunitaria a non acquisire una normativa di tutela artistica e culturale (ad eccezione della costituzione di una "Giunta di antichità e belle arti" nel 1832, che aveva lo scopo di proporre provvedimenti per la conservazione degli oggetti di antichità e d'arte).

A partire dall'opera di Winckelmann nacque la coscienza del valore del manufatto antico e una periodizzazione degli oggetti esposti. Dalla fine del XVIII secolo infatti le raccolte iniziano ad assumere anche un ruolo prettamente didattico e non più di mera esposizione finalizzata allo stupore e alla meraviglia dei visitatori. Con la nascita del Louvre inoltre si apre la strada alle esposizioni pubbliche, dapprima indifferenziate e solo a partire dal secolo successivo, nell'Ottocento, sempre più settorializzati, grazie anche ai diversi laboratori scientifici che si dotavano di piccole collezioni personali, come gli orti botanici o le raccolte delle intendenze ai beni artistici. Il museo archeologico si sviluppò proprio da queste ultime, acquistando una propria fisionomia e arricchendo le esposizioni con acquisizioni, donazioni, scambi.

In Italia, con le confische dei beni patrimoniali nobiliari e clericali avvenuti con la nascita dello Stato unitario, le intendenze si dotarono anche dei beni confiscati ai grandi ordini religiosi e alle famiglie nobiliari sottoposti al sequestro dei beni. Tuttavia il Regno d'Italia appariva piuttosto superficiale dal punto di vista normativo nei confronti del bene patrimoniale, lasciando libero spazio più alla proprietà privata (come recitava l'art. 29 dello Statuto Albertino) che non al bene pubblico, tutelato da un timido provvedimento con la Legge 2359 del 1865, che prevedeva l'espropriazione dei monumenti in rovina per incuria dei proprietari. Questo perché in sostanza il Regno preferì mantenere in vigore la legislazione dei precedenti Stati preunitari. Il principio dell'interesse pubblico, dell'obbligo di conservazione e dei poteri strumentali della pubblica amministrazione relativamente a beni di interesse artistico, storico, archeologico in Italia infatti sorge dalle prime due leggi in materia, la legge Nasi (L. 185 del 1902) e la legge Rosaldi (L. 364 del 1909). Le più importanti fonti legislative legate ai beni culturali del periodo pre-repubblicano tuttavia furono emesse solo nel 1939, costituite dalle Leggi 1089 e 1497, col primo ed importante tentativo di dare struttura normativa organica e sistematica alla normativa sul patrimonio culturale e paesaggistico italiano.

Dalla commissione Franceschini (1964) in poi si può parlare in Italia di "bene culturale quale bene immateriale di afferenza pubblica in quanto destinato alla fruizione collettiva - indipendentemente dalla proprietà pubblica o privata - quale testimonianza materiale avente valore di civiltà" e a partire dal 1970, con il d.p.r. n°805, nasce il concetto di "valorizzazione" e non più di "tutela".

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