Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà

ex-manicomio e museo italiano
(Reindirizzamento da Museo laboratorio della mente)

L'ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà era un'istituzione sanitaria dell'ex provincia di Roma che fino al 2000 fu destinata al trattamento delle malattie mentali.

Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà
Localizzazione
StatoItalia (bandiera) Italia
RegioneLazio
LocalitàRoma
IndirizzoPiazza Santa Maria della Pietà 5, 00135 Roma
Coordinate41°56′26.31″N 12°25′06.01″E
Informazioni generali
CondizioniIn uso
Costruzione1548
Ricostruzione1904
UsoUffici ASL
Uffici Municipio Roma XIV
Museo della Mente
Realizzazione
ProprietarioRegione Lazio

Dalla sua fondazione nel XVI secolo fino al 1907, ebbe varie sedi; la più recente struttura presso cui era ubicato si trova a Monte Mario, area nel settore nord-occidentale di Roma, in cui nel 1907 furono edificati i padiglioni dell'istituto. I locali, di proprietà della Regione Lazio, consistono in un corpo centrale e circa quaranta padiglioni. Il primo è adibito a sito museale, mentre i padiglioni sono in uso all'Azienda sanitaria locale Roma 1, che ivi ospita propri ambulatori, e al XIV Municipio di Roma Capitale.

Facendo seguito alle riforme dell'ordinamento sanitario e, in particolare, del trattamento psichiatrico iniziato dalla legge Basaglia, la struttura perse la sua funzione di manicomio giudiziario e venne gradualmente ridimensionato fino alla chiusura definitiva avvenuta il 14 gennaio 2000.[1]

Origini e sedi

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Edgardo Negri, Vista a volo d'uccello del complesso ospedaliero di Santa Maria della Pietà in località Sant'Onofrio a Roma, 1909

L'istituzione del Santa Maria della Pietà ha origini antiche risalenti al XVI secolo. Fu fondato nel 1548 per volontà e opera del sacerdote sivigliano Ferrante Ruiz e dei due laici Angelo Bruno e il figlio Diego, legati a Ignazio di Loyola.[2]

La prima sede, nei pressi di Piazza Colonna a Roma, fu inizialmente preposta all'accoglienza dei numerosi pellegrini attesi per l'Anno Santo del 1550, mentre in seguito si specializzerà in aiuto ai poveri, vagabondi, ma soprattutto nell'accudimento dei folli.

Inizio del testo del primo regolamento adottato dalla allora struttura di ricovero e assistenza: "Ordinamento elaborato dal cardinale Francesco Barberino nel 1635 su ordine di papa Urbano VIII".[senza fonte]

«Regole et ordini per il buon governo della Chiesa, et Ospitale della Santissima Pietà, dove si governano, et mantengono gli Huomini, e le donne pazze della Città di Roma in piazza Colonna, stabilite al primo d'ottobre 1635
D'ordine dell'Emnentiss.mo Sig. Card. Francesco Barberino protettore.
Avendo la Santità di Nostro Signore Papa Urbano VIII eletto l'Eminentissimo Sig. cardinale FRANCESCO Barberini suo nepote per protettore della Chiesa di Piazza Colonna et ospitale della Santissima Pietà dove si governano, e mantengono, gli huomini e le donne pazze della città di Roma: Et havendo Sua Eminenza inteso con particolare senso di disgusto, che per il buon governo di detto luogo non si sieno finora stabilite le regole e gli ordini necessari da osservarli, hà ordinato che si formino, e mettino in uso, acciò opera così pia, e santa venga da tuti amministrata con quella carità che si conviene.»

Segue un capitolato di XV voci che individua nel dettaglio e pienamente responsabilizza le figure preposte agli atti amministrativi, alla sorveglianza a alle mansioni per il corretto funzionamento della struttura ospedaliera tutto ciò in data 7 ottobre 1635.

Nel 1725 Papa Benedetto XIII accorpò l'ospizio all'arcispedale di Santo Spirito ed il trasferimento a via della Lungara, allora ben lontana dal centro della città: l'isolamento del pazzo dal contesto sociale cominciò a richiederne anche l'isolamento fisico dalla società civile.[3]. L'isolamento ed il numero sempre maggiore di ricoverati portarono ad un periodo di decadenza dell'ospedale. Nei secoli successivi seguirono numerosi dibattiti, provvedimenti per il risanamento, nuovi regolamenti e visite apostoliche che videro annettersi alla struttura principale anche Villa Barberini, per i degenti più facoltosi, e Villa Gabrielli sul Gianicolo.

Con l'Unità d'Italia, il Santa Maria della Pietà venne riconosciuto come Opera Pia, mentre dal 1907 la sua amministrazione fu affidata completamente alla Provincia.

Il complesso del 1909

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Nel 1909 per iniziativa del senatore Alberto Cencelli sulla collina di Monte Mario (località Sant'Onofrio) cominciarono i lavori per il nuovo ospedale psichiatrico progettato da Edgardo Negri e Silvio Chiera e denominato Manicomio Provinciale di Santa Maria della Pietà che cominciò a funzionare il 28 luglio 1913 e fu inaugurato ufficialmente da Vittorio Emanuele III il 31 maggio 1914.[2] Il complesso concepito con lo spirito del manicomio-villaggio si estendeva su circa centotrenta ettari e comprendeva quarantuno edifici ospedalieri, di cui ventiquattro erano padiglioni di degenza. Gli edifici, immersi in un grande parco di piante a fusto alto e collegati l'un l'altro da una rete stradale di circa sette chilometri complessivi[2] costituivano così il più grande Ospedale Psichiatrico d'Europa con una capacità di più di mille posti letto.

Struttura e internamento

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Il Santa Maria della Pietà si presentava diviso in due sezioni rigidamente separate: l'area maschile e quella femminile che rimarranno ben differenziate nella gestione fino agli anni '70. Era una piccola città dove i servizi interni erano garantiti dalla presenza di un impianto termico centralizzato, la cucina, la dispensa, lavanderia e in seguito anche una piccola sala operatoria. Vi erano inoltre la fagotteria (dove venivano depositati gli effetti personali dei ricoverati), la chiesa, l'alloggio delle suore, i laboratori dei fabbri e dei falegnami.

All'epoca la legge prevedeva il ricovero delle persone sulla base di un certificato attestante uno stato di pericolosità per sé o per gli altri o per atteggiamenti di pubblico scandalo[4] e ben presto si giunse ad un sovraffollamento con oltre duemila ricoveri. Nei casi incerti si decideva la dimissione o l'internamento dopo un periodo di osservazione.

Ogni padiglione era una realtà a sé stante: la ripartizione dei malati non veniva fatta in base alle patologie psichiatriche dei malati stessi, ma esclusivamente in merito al comportamento che questi manifestavano. Il team di infermieri, la suora caporeparto e il medico di ogni padiglione si trovavano così a gestire un insieme disomogeneo di degenti altamente diversi per gravità della patologia, terapia ed età. Comuni erano invece l'inattività, l'abbandono e regressione dei pazienti che sviluppavano di conseguenza un carattere aggressivo.

Tra i diversi padiglioni si ricordano: il XVIII dei criminali con mura di cinta di quattro metri; il XIV degli agitati; il XXII dei cronici, il XII dei pericolosi per tentativi di fuga e di suicidio; il VIII e XC dei bambini; il XXX delle lavoratrici e padiglioni specifici per pazienti con TBC, come il XVI. Il padiglione più grande, il XXII, detto il Bisonte, ospitava più di trecentoventi pazienti tra epilettici, dementi senili e schizofrenici.

Vita da manicomio

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La vita nel manicomio era principalmente scandita dai pasti e dalle rigide disposizioni del regolamento interno. Ad ogni cambio di turno gli infermieri dovevano fare la conta dei pazienti in loro consegna e riportare il tutto su di un registro detto vacchetta: era infatti sotto la loro personale responsabilità l'incolumità di ogni degente. A questo fine nei turni notturni gli elementi più problematici venivano spesso costretti a letto con fasce di contenzione o sedati con rimedi drastici. Questo contesto segregante e disumanizzante colpiva entrambe le parti come riporta Adriano, infermiere psichiatrico:

«Il lavoro degli infermieri è molto difficile e si mettono in moto meccanismi spontanei di autodifesa psicologica. Si instaura un adeguamento alle regole e, com'è naturale in queste situazioni, si viene inglobati dai meccanismi istituzionali senza rendersene conto, divenendo allo stesso tempo strumento e vittima della repressione manicomiale»

Nei momenti vuoti i degenti venivano posti nelle sorveglianze interne od esterne e lasciati a se stessi, in una nullafacenza delirante e controproduttiva. Solo occasionalmente venivano concesse delle passeggiate nel parco del manicomio. La normale routine veniva rotta solo in due occasioni: il primo maggio e il 15 settembre, ricorrenza di Santa Maria della Pietà in cui veniva organizzata una grande festa che tramutava il manicomio, anche se per poco, in un ambiente piacevole. Alcuni pazienti denominati malatini per le loro caratteristiche tranquille e servizievoli godevano di maggiori libertà: aiutavano gli infermieri nella gestione dei degenti più impegnativi o venivano loro affidati dei lavori retribuiti all'interno del manicomio stesso. Alcuni di loro infatti lavoravano in una piccola azienda agricola, creata nell'ottica dell'ergoterapia, rendendo quasi autosufficiente la struttura.


  1. ^ https://www.superabile.it/cs/superabile/roma-celebra-i-10-anni-di-chiusura-del-santa-maria-della-pieta.html
  2. ^ a b c Pompeo Martelli, Breve Storia del Santa Maria della Pietà dal XVI al XX secolo (PDF), su museodellamente.it. URL consultato il 1º febbraio 2014 (archiviato dall'url originale il 2 febbraio 2014).
  3. ^ Tagliacozzi, Pallotta, Scene da un manicomio. Storia e storie del Santa Maria della Pietà, op. cit., p.16
  4. ^ Tagliacozzi, Pallotta, Scene da un manicomio. Storia e storie del Santa Maria della Pietà, op. cit., p.52
  5. ^ Tagliacozzi, Pallotta, Scene da un manicomio. Storia e storie del Santa Maria della Pietà, op. cit., p.47

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