Il Ritmo Cassinese è un'allegoria in versi anonima la cui interpretazione non è risolta, composta da novantasei versi in dodici strofe di varia lunghezza, ed è una delle prime opere letterarie scritte in lingua volgare in Italia. Secondo Peter Dronke la sua "arte e consapevolezza letteraria precludono ogni possibilità che costituisca l'effettiva origine della composizione volgare in Italia" (Rico, 681).

Il componimento è conservato nel manoscritto 552-32 dell'Abbazia di Montecassino e risale all'XII secolo[1], sebbene la ricopiatura sul codice risalga alla fine del XII e l'inizio del XIII, giudicando la scrittura. È stato pubblicato per la prima volta a Napoli nel 1791, mentre solo nel secolo successivo sono iniziati seri tentativi di una sua edizione critica.[2]

Il dialetto del poeta è centro-meridionale e ogni strofa è composta da ottonari monorimi con un distico o una terzina finale, sebbene presenti irregolarità metriche e linguistiche. Notevole è la presenza di latinismi e di provenzalismi.[3]

Il poeta comunque prende spunto da una fonte latina, una Scriptura forse identificabile con la Bibbia. Analizzando riferimenti interni, si è ipotizzata la possibile stesura da parte di un giullare che traendo forse spunto da dibattiti in corso negli ambienti monastici meridionali, ed echeggiando su antiche leggende su Alessandro Magno, in particolare del Re Indiano Poro, come presente ad esempio nella Collatio Alexandri regis cum Dindimo rege.[4] [5]Ne deriva un confronto tra due monaci che rappresentano due mondi: l'oriente ascetico e l'occidente più mondano.[6]

Testo e parafrasi

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«Eo siniuri, s’eo fabello,
lo bostru audire combello:
de questa bita interpello
e•ddell’altra bene spello.
Poi k’enn altu m’encastello,
ad altri bia renubello.
E•mmeb’e[n]cendo flagello.
Et arde la candela, sebe libera,
et altri mustra bïa dellibera.
Et eo, se nce abbengo culpa jactio,
por vebe luminaria factio.
Tuttabia me nde abbibatio
e ddiconde quello ke sactio:
c’alla Scrittura bene platio.
Ajo nova dicta per fegura,
ke da materia no sse transfegura
e coll’altra bene s’affegura.
La fegura desplanare;
c’apo i lobollo pria mustrare.
Ai, dumque, pentia null’omo fare
questa bita regu[l]are?
Deducer’e deportare
mort’è, non guita, gustare.
Cunqua de questa sia pare?
Ma tantu quistu mundu è gaudebele
ke l’unu e l’altru face mescredebele!
Ergo, poneteb’a mente
la Scriptura como sente.
Ca là sse mosse d’Oriente
unu magnu vir prudente,
et un altru Occidente.
Fori junt’in albescente;
addemandaruse presente.
Ambo addemandaru de nubelle,
l’unu e ll’altru dicuse nubelle.
Quillu d’Oriente pria
altia l’occlu, sì llu spia,
addemandaulu tuttabia
como era, como gia.
«Frate meu, de quillu mundu bengo,
loco sejo et ibi me combengo.»
Quillu, auditu stu respusu
cuscì bonu d'amorusu,
dice: «Frate, sedi, josu;
non te paira despectusu;
ca multu fora colejusu
tia fabellare ad usu.
Hodie mai plu non andare,
ca te bollo multu addemandare,
serbire, se•mme dingi commandare.»
«Boltier’ audire nubelle
de sse toe dulci fabelle:
onde sapientia spelle,
dell’altra bene spelle.
[...]
Certe credotello, frate,
ca tutt’è ’m beritate.
Una caosa me dicate
d’essa bostra dignitate:
poi k’en tale destuttu state,
quale bita boi menate?
Que bidande mandicate?
Abete bibande cuscì amorose
como queste nostre saporose?»
«Ei, parabola dissensata!
Quantu male fui trobata!
Obebelli ài manucata
tia bibanda scellerata?
Obe l’ài assimilata?
Biband’avemo purgata
d’ab enitiu preparata:
perfecta binja piantata,
de tuttu tempu fructata.
En qualecumqua causa delectamo
tutt’a quella binja lo trobamo
e•ppuru de bedere ni satiamo.»
«Ergo non mandicate?
Non credo ke bene ajate!
Homo ki nimm bebe ni manduca
non sactio comunqua se deduca
nin quale vita se conduca.»
«Dumqua, te mere scoltare:
tie que te bollo mustrare
Se tu sai judicare
tebe stissu, metto a•llaudare.
Credi, non me betare
lo mello, ci*tte'nde pare.
Homo ki fame unqua non sente
non è sitiente.
Qued à besonju, tebe saccente,
de mandicare e de bibere? Niente!»
«Poi k’en tanta gloria sedete,
nulla necessu n’abete;
ma quantunqu’a Deu petite
tuttu lo ’m balia tenete;
et en quella forma bui gaudete.
Angeli de celu sete!»»

«Io, signori, se parlo
eccito il vostro ascolto,
di questa vita duco
e dell'altra ben spero.
Dopo che in alto mi sono rinchiuso
lascio ad altri la vita secolare.
Verso di me uso penitenze.
Arde la candela, ma io son libero,
ad altri mostra la via libera.
E se giaccio in una colpa,
per voi illumino la via.
Tuttavia mi eccito
e dico quello che so:
che trovo nella Scrittura.
Ho nuove parole in allegoria,
che colla materia non si trasfigura
e coll'allegoria si può ben esprimere.
Voglio spiegare l'allegoria,
ma prima la voglio mostrare.
Dunque, potrebbe qualche uomo fare
questa vita regolare?
Divertirsi e sollazzarsi
è morte, non è gustar la vita.
Che cosa è l'origine di questa vita?
Ma tanto questo mondo è godibile
che l'uno e l'altro rende miscredente.
Per questo ponetevi in mente
cosa è scritto nella Scrittura.
Si mosse di là, dall'Oriente
un grande uomo prudente,
ed un altro dall'Occidente.
Sono giunti verso l'alba;
si chiesero del presente.
Entrambi chiesero cose nuove
l'uno e l'altro si dicono cose nuove.
«Quello d'Oriente prima
alza l'occhio, lo guarda
e gli chiede tuttavia
come era, come va.
Fratello mio, da quel mondo vengo
lì risiedo e lì voglio ritornare.»
Quello, udita questa risposta,
così ben affettuosa,
dice: «fratello, resta, siedi,
non apparire dispettoso,
che molto sarebbe desiderabile
parlarti familiarmente.
Oggi non camminare più
perché ti voglio chiedre molte cose
e servirti, se mi comandi qualcosa.»
«Volentieri ascolto cose nuove
se tu ne parli dolcemente,
per cui di sapienza parli,
parla dell'altro bene.»
«Certamente ti credo, fratello,
che tutto è detto con verità:
che mi diciate una cosa
di questa nostra dignità:
poiché state in questo sollazzo,
quale vita voi menate?
quali cibi mangiate?
Avete vivande così amorose
come queste nostre saporose?»
«O parola insensata!
Quanto malamente fu pronunciata!
Dove l'hai mangiata
questa vivanda scellerata?
Quando l'hai ingerita?
Noi abbiamo una bevanda pulita,
preparata bene dall'inizio
abbiamo piantato una vigna perfetta,
che in ogni stagione porta frutto.
E qualunque cosa ci serve (e ci diletta)
in quella vigna la troviamo;
e anche da bere ci saziamo.»
«Dunque, non mangiate?
Non credo che ne riceverete bene!
Uomo che non beve e non mangia
non so come si possa divertire
né quale vita possa fare.»
«Dunque, ti conviene ascoltarmi,
perché te lo voglio dimostrare.
Se tu sai giudicare,
tu stesso da solo lo loderai.
Credimi, non mi vietare
il meglio, se ti sembra.
Un uomo che fame mai non sente
e non ha sete
cosa ha bisogno, perché tu lo sappia,
di mangiare e di bere? Niente!»
«Poi che in tanta gloria sedete,
e nessuna necessità avete;
ma ogni cosa che a Dio chiedete,
tutto a disposizione lo avete;
e in quella forma voi godete.
Angeli del cielo, siete.»»

[7]
  1. ^ ritmo cassinese, su www.luzappy.eu. URL consultato il 2 ottobre 2024.
  2. ^ Alle origini dell'italiano, su luzappy.eu.
  3. ^ Lingue, culture e valori, su europacristiana.com.
  4. ^ Fredi Chiappelli, Nota Sul Ritmo Cassinese, in Lettere Italiane, vol. 10, n. 4, 1958, pp. 490–493. URL consultato il 2 ottobre 2024.
  5. ^ Cesare Segre, Per Curiosità, collana Gli struzzi 512, Prima, Einaudi, 1999, ISBN 88-06-14917-2.
  6. ^ Nino Borsellino, Walter Pedullà Storia generale della letteratura italiana Vol. I Il Medioevo le origini e il Duecento Gruppo Editoriale L'Espresso (1 gennaio 2004) pag. 261
  7. ^ Ritmo cassinese su www.luzappi.eu, su luzappy.eu.