Valvestino

comune italiano
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Valvestino (Val Vestì in dialetto bresciano) è un comune italiano sparso di 162 abitanti della provincia di Brescia in Lombardia.

Valvestino
comune
Valvestino – Stemma
Valvestino – Bandiera
Valvestino – Veduta
Valvestino – Veduta
Veduta di Turano
Localizzazione
StatoItalia (bandiera) Italia
Regione Lombardia
Provincia Brescia
Amministrazione
SindacoFlavio Corsetti (Lista civica “Uniti per la Valvestino”) dal 10-6-2024
Data di istituzione10-1-1932
Territorio
Coordinate45°46′N 10°36′E
Altitudine680 m s.l.m.
Superficie31,12 km²
Abitanti162[1] (31-12-2023)
Densità5,21 ab./km²
FrazioniArmo, Bollone, Droane, Moerna, Persone e Turano
Comuni confinantiBondone (TN), Capovalle, Gargnano, Idro, Magasa, Tignale
Altre informazioni
Cod. postale25080
Prefisso0365
Fuso orarioUTC+1
Codice ISTAT017194
Cod. catastaleL468
TargaBS
Cl. sismicazona 2 (sismicità media)[2]
Cl. climaticazona F, 3 182 GG[3]
Nome abitantivalvestinesi
Patronosan Giovanni Battista
Giorno festivo29 agosto
Cartografia
Mappa di localizzazione: Italia
Valvestino
Valvestino
Valvestino – Mappa
Valvestino – Mappa
Posizione del comune di Valvestino nella provincia di Brescia
Sito istituzionale

Geografia fisica

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Valvestino è situato nella valle omonima, tra la Valle Sabbia e il Lago di Garda. È composto dalle cinque frazioni di Armo, Bollone, Moerna, Persone e Turano. La sede municipale si trova nel paese di Turano. È uno dei nove comuni membri della Comunità Montana Parco Alto Garda Bresciano con sede a Gargnano e il suo territorio comprende la parte nord del lago di Valvestino.

Geologia

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L'Impero austriaco nella seconda metà dell'Ottocento progettò e finanziò nell'ambito del Geologische Reichanstalt studi e ricerche geologiche nel Tirolo meridionale e nel Trentino parallelamente con i rilievi topografici e le prime carte catastali. Tra il 1875 e il 1878 Karl Richard Lepsius[4] svolse accurate ricerche stratografiche dedicando alcune pagine del suo libro alla geologia delle Alpi di Ledro e dei monti a sud dell'Ampola con studi di dettaglio della dolomia superiore dell'Alpo di Bondone, della Valle Lorina, della Val Vestino e del monte Caplone. Nella sua pubblicazione "L'Alto Adige occidentale" edita a Berlino nel 1878 Lepsius scrisse: "La maggior parte della Val di Vestino è costituita da dolomie principali, le cui gole selvagge sono difficilmente penetrabili; su di essa giacciono gli strati retici, gravemente fagliati e trafitti dalle rigide dolomiti. La formazione irregolare rende difficile separare sempre il calcare lilodendro[5] e la dolomia dalla sottostante dolomia principale; perché le contorta-mergel sono per lo più scartate e frantumate, e portate via dall'acqua sulle dolomiti. L'ampio pianoro sopra Magasa, su cui si estendono freschi prati verdi e cespugli, lo riconosciamo subito come retico in contrasto con le dolomitiche aspre e quasi completamente brulle: numerosi blocchi di lilodendri, Terebratula gregaria, Aviceln, Modiole confermano subito la nostra ipotesi; accanto a ciò sono state strappate dall'acqua le argille di contorta-thone, in cui troviamo la stessa Avicula contorta, Cyrena rhaetica, Cerithium hemes, Leda percaudata, Cardita austriaca[6] e altre. Sono state trovate grandi quantità di fossili caratteristici di questi strati. Gli strati scendono dal Passo del Caplone a sud; i calcari lilodendri sono crollati sulle argille inferiori e gettati a sud sulle dolomiti principali. Le case sui prati superiori[7] sono costruite con calcare nero di lilodendro. Verso l'abitato di Magasa si scende su calcari lilodendri, un'alternanza di calcari grigi e neri, calcari dolomitici grigi e bianchi di dolomie bianche. Sotto di essa giace, non molto fitta, impalata tra frastagliate dolomiti principali, la contorta-mergel. Da Magasa, dirigiti a ovest attraverso l'altopiano per arrivare a Bondone e nella valle del Chiese"[8].

Origini del nome

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Sull'origine del toponimo Val Vestino esistono varie ipotesi interpretative e secondo il geografo trentino Ottone Brentari[9] la Val Vestino prenderebbe il nome dai monti Vesta[10] e Stino che la chiudono nella parte sud occidentale, mentre per lo storico bresciano monsignor Paolo Guerrini, concordando con Claudio Fossati di Maderno[11], la vuole da Vest: luogo scosceso e boscoso. Altri ricercatori invece sostengono la derivazione da Ve, ossia da quei prati posti di fronte a nord al Molino di Bollone[12] fino alla chiesetta di San Rocco a Moerna e Stino, il monte che sovrasta l'abitato di Moerna[13] e in linea diretta con Ve.

Secondo la linguista Claudia Marcato, il toponimo sarebbe un composto di valle più Vestino, nome locale confrontabile con l'oronimo Vesta, il poleonimo Vestone e altri toponimi lombardi simili, "che sono da ritenere di origine incerta" e richiamano alcuni nomi personali come Vestus, Vestius, Vestonius (e Vestino anche l'etnico Vestini, popolo italico del centro della penisola). Sono in effetti attestati i nomi personali di origine celtica Vistus, Vistalus, Vestonius, Vessonius[14].

Un'ultima ipotesi di Natale Bottazzi, asserisce che l'origine del nome Vestino è ascrivibile alla voce latina “vastus” che significa luogo desolato. Sembra che non vi sia nessuna somiglianza con l'antico popolo dei Vestini stanziati nell'Abruzzo e sottomessi dai Romani nell'89 a.C. anche se alcune analogie sono sorprendenti, tra queste il culto per la dea Vesta, il richiamo al nome del dio umbro Vestico[15], il "dio-libagione" associato al culto della terra dispensatrice di frutti e l'origine dell'etnonimo che secondo alcuni sarebbe formato dalle voci celtiche "Ves" che significa fiume o acqua e da "Tin" che significa paese indicando in tal modo un "paese delle acque", visto che il territorio abruzzese dell'area Vestina è particolarmente ricco di corsi d'acqua e sorgenti, come lo è anche la Val Vestino[16][17]. Curiosa rimane anche la somiglianza con il toponimo della Valle del Vestina sita in Toscana nel comune di Monte San Savino o del comune veronese di Vestenanova.

Il leggendario passaggio di papa Alessandro III in Valle nel 1166

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Un'antica leggenda nata sulla fine del Quattrocento inizio del Cinquecento[18] narra che sul finire del 1166, precisamente nel mese di ottobre, passò sui monti del Bresciano e in Val Vestino il papa Alessandro III, esule da Roma, incalzato dagli imperiali. Questo racconto è stato insistentemente riportato oralmente nei secoli dalla popolazione locale e trascritto, ma ritenuto inattendibile, dai più degli storici, tra questi Cipriano Gnesotti, ecclesiastico storese, nella sue "Memorie delle Giudicarie" del 1700[19].

A Turano di Valvestino si rievoca, nell'ultima domenica del mese, la Festa del Perdono ove ogni persona, pentita e confessata, che abbia visitato la chiesa di San Giovanni Battista, vengono rimesse completamente tutte le colpe, appunto istituita, secondo la tradizione, dal papa Alessandro III riconoscente dell'ospitalità e della protezione dei valligiani prima di riprendere il suo percorso in Val Sabbia. Secondo Attilio Mazza si può supporre che tale Festa del Perdono sia piuttosto da collegare al Perdono d'Assisi del 1216 che si celebra il 2 agosto[20] mentre Cipriano Gnesotti ipotizza che: "cadendo in quest'ultima domenica la Consacrazione della Chiesa Rettorale, nella quale in allora sia concessa una indulgenza per chiamarvi que' popolani a farne l'anniversaria adorazione, e questa si chiama ancora Perdono. Di certo il concorso è grande, e maggiore era tempo fa, quando vi concorreva la milizia nazionale. Bolla di indulgenza non si può mostrare perita, credo, nell'incendio della canonica di Turano"[21].

Del passaggio in Val Sabbia e Val Trompia di Alessandro III le cronache ricordano una lapide murata sulla parete della chiesa di Mura appartenente all'ex pieve di Savallo[22], mentre il 19 aprile 1545 mons. Donato Savallo, rettore di Marmentino e arciprete della cattedrale di Brescia, ritrova le reliquie insigni che si ritenevano donate da papa Alessandro III transitante per Marmentino fuggendo dall'imperatore Federico Barbarossa, e le colloca devotissimamente sotto l'altar maggiore della chiesa parrocchiale dei Santi Cosma e Damiano. Il papa sembra donò alla Chiesa una ricca pianeta dorata[23][24].

1166, il transito dell'imperatore Federico I Barbarossa

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Un'antica tradizione orale più volte riportata nei secoli dagli storici, tra questi Cipriano Gnesotti nella sue "Memorie delle Giudicarie" del 1700[25]. e nei rapporti segreti dei provveditori veneti di Salò inviati al Consiglio dei Dieci a Venezia nel 1600[26], racconta che nell'ottobre del 1166 l'imperatore di Germania, Federico I detto il Barbarossa, scese in Italia con il proprio esercito composto da circa 10 000 uomini per la quarta volta con l'intento di strappare all'Imperatore d'Oriente la base che egli manteneva nell'Italia centrale e assoggettare le città ribelli alla politica del Sacro romano impero. Costui, passato per Trento, dopo aver percorso la consueta Valle dell'Adige e vista l'impossibilità di raggiungere Milano data l'ostilità dei Veronesi e dei Castelbarco che avevano sbarrato con ingenti forze la Val Lagarina, espugnato i castelli ghibellini di Rivoli e Appendice, e quella delle città di Brescia e Bergamo, deviò sulla sponda orientale del lago di Garda e imbarcò a Garda i propri armati fino all'approdo di Toscolano.

Qui, guidato dai fedeli conti di Lodrone, feudatari ghibellini, si inerpicò nella Valle del Toscolano, raggiunta la Val Vestino, da Turano salì alla Bocca Cocca e per la mulattiera del monte Cingolo Rosso discese a Lodrone, donde per Bagolino e passo di Croce Domini passò in Valcamonica a Breno e raggiunse così Milano nel mese di novembre. Per alcuni questo passaggio, per altri invece quello di papa Alessandro III avvenuto nello stesso anno nel mese di novembre, sarebbe ricordato da certe lettere incise "in macigno" vicino al luogo denominato Scaletta nel territorio di Bondone presso il monte Cingolo Rosso[27][28][29].

Altri storici non menzionano il fatto, invece, al contrario, tra questi Ludovico Antonio Muratori, sostengono che dalla Valle dell'Adige il Barbarossa ritornò sul suo cammino e puntò al passo del Tonale calando poi nella fedele Valcamonica[30]. Mentre per altri studiosi, i due fatti non sono in contrapposizione fra loro e anzi lecitamente si può supporre per Cipriano Gnesotti un transito breve dell'imperatore passando in Val Vestino con la sola scorta dei Lodron e di poche unità per raggiungere al più presto possibile e in gran segreto Breno, mentre il grosso dell'esercito, vista l'impossibilità di essere traghettato via lago dalle esigue imbarcazioni presenti, un passaggio più lungo a nord nella Valle di Non. delle Giudicarie disposte secondo l'ordine dei tempi, 1786. e nei rapporti segreti dei provveditori veneti di Salò inviati al Consiglio dei Dieci a Venezia nel 1600[26], racconta che nell'ottobre del 1166 l'imperatore di Germania, Federico I detto il Barbarossa, scese in Italia con il proprio esercito composto da circa 10 000 uomini per la quarta volta con l'intento di strappare all'Imperatore d'Oriente la base che egli manteneva nell'Italia centrale e assoggettare le città ribelli alla politica del Sacro romano impero.

Antichi valvestinesi nei documenti: testimoni o emigranti

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L'emigrazione valvestinese nei territori del Principato vescovile di Trento è documentata in atti notarili, già a partire dal XIII secolo, ove i valligiani compaiono come testimoni in compravendite, nelle successioni ereditarie o nelle deliberazioni delle comunità che li ospitavano. Il nome del primo valligiano è attestato in una pergamena del 1202, quando, lunedì 18 novembre, ad Arco di Trento, in un terreno di proprietà dei sacerdoti della Pieve di Santa Maria, un certo diacono Laçari "de Vestino" presenzia come testimone alla vendita di "un fitto annuo di due gallette di frumento corrisposto da Otebono figlio di Marsilio arciere" e l'arciprete della stessa pieve e il presbitero Isacco[31]. Sempre ad Arco, il 21 novembre del 1257, un altro valvestinese, "Odorici de Valvestino" testimonia alla stesura delle ultime volontà di Zavata, figlio del fu Antonio da Caneve[31]. Una compravendita del 17 aprile 1277 avvenuta a Civezzano, nei pressi di Trento, rivela anche in quel luogo una presenza di emigranti di Valle, difatti una certa "domina Bonafemina", moglie del defunto notaio Martino "de Vestino", comprò per 4 lire veronesi un casale agricolo sito a Vallorchia[32].

Nella cittadina di Riva del Garda si stabilì una piccola ma operosa comunità di emigrati. Il 23 febbraio 1371, sotto il porticato del Comune, "Tonolo condam Iohannis de Vestino" riunito in pubblico consiglio con altri cittadini di Riva, su mandato del podestà Giovanni di Calavena per conto di Cansignorio della Scala, vicario imperiale di Verona, Vicenza e della stessa Riva, partecipa all'elezione dei procuratori della comunità. Altro caso è quello di "Antonii sartoris de Vestino condam Melchiorii" che il 12 febbraio 1417 è convocato per l'elezione dei procuratori della comunità rivana nella vertenza con gli uomini di Tenno che si oppongono al pagamento delle collette dei beni posseduti nel loro territorio[33]. Tra il 1400 e il 1500 una forte emigrazione di mano d'opera costituita da mastri muratori, falegnami e lapicidi proveniente dai laghi lombardi interessò Verona e la sua provincia e in special modo la Valpolicella; una parte di questi emigranti era originaria della Val Vestino ed alcuni operarono nell'edificazione di casa Capetti a Prognol di Marano di Valpolicella[34].

 
Via di Sopra a Magasa, in fondo a destra la Cà dei Pitùr (Casa dei Pittori) probabile domicilio della famiglia d'artisti

A Venezia compare un certo Antonio di Domenico, pittore a tra il 1590 e il 1615. Attestato tra i pittori della Fraglia di Venezia, imparò i primi rudimenti dell'arte pittorica dal padre Domenico detto "Magasa" con il quale si trasferì dapprima nella Riviera di Salò e successivamente nella città lagunare. Poche le notizie biografiche, sconosciuta la produzione artistica anche se è lecito supporre che abbia partecipato ai vari cantieri decorativi dell'edilizia civile di Venezia. Sconosciuto pure è il cognome anche se nei documenti del tempo viene indicato come figlio di Domenico Magasa onde evidenziare l'origine di provenienza della famiglia[35], mentre è ancora oggi visibile la presunta abitazione della famiglia dell'artista, sita in via di Sopra, soprannominata "Casa dei pittori".

Nella Valle del Chiese, a Storo, altri valvestinesi compaiono come testimoni in tre occasioni: il 5 settembre 1356 quando, Pietro fu Bacchino da Moerna, a nome delle comunità di Val Vestino, Bollone e Magasa si accorda con Giovanni fu "Gualengo" e Frugerio fu "Casdole", in qualità di consoli della comunità di Storo, e con altri uomini della suddetta comunità, in merito ai diritti di pascolo sulla cima del monte Tombea; il 3 aprile 1486 Giovanni di Pietro da Moerna e i fratelli Antonio e Zeno Zeni di Magasa sono presenti sulla pubblica piazza quando gli storesi riuniti in pubblica regola costituiscono i loro procuratori pressi il principe vescovo di Trento in relazione a delle decime su terreni incolti; l'8 dicembre del 1491 Antonio di PietroBono e Pietro Porta, ambedue di Moerna, presenziano all'elezione dei procuratori sempre di quella comunità presso il vescovo trentino Uldarico Frundsberg in seguito all'assassinio del cappellano Giacomo[36]. Nel piccolo villaggio di Agrone di Pieve di Bono troviamo invece nel giugno del 1536 un certo Cristoforo da Turano che presenzia ad una compravendita tra un privato e il Comune mentre, il 25 marzo 1591, Domenico Zuaboni di Armo funge da testimone alla "regola" di quella comunità che elabora cinque nuovi regolamenti in materia di pascolo e di uso delle acque in diverse località periferiche. Nel villaggio di Praso apprendiamo da un atto notarile del 30 maggio 1663 che Caterina Maia, sorella del defunto curato don Giovanni, cedette al beneficiato don Pietro Ferrari da Poia diversi beni appartenuti in passato ad una donna originaria di Magasa o moglie di un emigrante Magasino, tra cui la metà di un terreno ortivo in località detta al "Orto della Magasa" e una "Casa della Magasa che era di Vivaldo"[37].

Un'emigrazione stagionale come carbonai in Val di Fiemme è attestata invece il 29 maggio 1522 quando a Cavalese Bartolomeo Delvai, "scario", concede in locazione per un anno a Giovanni Zeni di Val Vestino il taglio del legname nei boschi di Scaleso, mentre a Tremosine nel microtoponimo di Aiàl del Magasì (spiazzo del Magasino, ossia di Magasa), luogo preposto alla produzione del carbone; nel 1569 a Mestriago in Val di Sole con Valdino fu Giovanni de Vianellis di Magasa[38]. Il 13 marzo 1586 a Tiarno di Sotto in Val di Ledro il carbonaio Antonio fu Viano di Armo, dimorante nel comune, presenzia come testimone nell'abitazione di un certo Angelo fu Angelo al rogito del notaio Stefano Sottil fu Giovanni di Tiarno di Sotto alla stesura del regolamento comunale riguardante lo sfruttamento dei boschi della comunità stipulato tra i regolani di Tiarno di Sotto, Sopra e Bezzecca[39].

A Trento, il 28 dicembre 1557, il maestro Bernardo fu Giovanni "Tornari" di Magasa stipula con il "dominus" Giovanni Maria fu Antonio Consolati il contratto d'affitto perpetuo di una porzione di casa sita nella Contrada del Macello Grande al costo di una libbra di pepe e 9 carantani annui[40].

Tra il 1590 e il 1592, a Creto di Pieve di Bono-Prezzo, alla fiera di Santa Giustina di bestiame e prodotti caseari, la più grande delle Giudicarie, "forestieri" della Val Vestino operano sul mercato secondo quanto riportato dal registro del dazio vescovile[41]. A Pieve di Ledro il 13 agosto 1603 nella casa del notaio Giovan Domenico Boninsegna di Prè, Giacomo fu Giovanni Bono di Armo dimorante a Bezzecca, testimonia una quietanza di pagamento derivante da una eredità tra Agostino figlio di Ciso di Bezzecca e i consoli di una certa Barbara vedova di Antonio De Pietro consistente in 33 ducati da 10 libbre l'uno di buona moneta piccola trentina[42]..

Nel 1678, da Magasa, una certa famiglia Andreis emigra nel villaggio di Mignone di Costa di Gargnano; i suoi componenti erano soprannominati Magasì e Tadena. Nei secoli successivi i 140 discendenti Andreis risulteranno quasi tutti emigrati a Desenzano, Lumezzane, Tignale, Botticino, Milano e nella Svizzera. Infine un testamento del 17 novembre 1785 di Giacomo Stefani fu Giovanni, detto Legher, di Magasa e rogato del notaio Salvatore Zanetti, cancelliere della contea di Lodrone e del comune di Darzo, rende noto che il fratello Giovanni "già nella sua gioventù abbandonò la Patria, e n'è da quella da 45 e più anni assente, senza che sia noto il luogo della sua dimora, vita, o morte, e senza che si sappia, se abbia lasciata dopo di sè veruna legittima discendenza..." e solamente dopo "diligenti perquisizioni" si poté appurare che lo stesso dimorasse nell'isola di Corfù, possedimento della Repubblica di Venezia, arruolato nella milizia veneta[43].

1405, il compromesso arbitrale fra la comunità di Storo e quelle di Magasa, Armo, Persone, Moerna e Turano nella Val Vestino causa la lite per i rispettivi confini del monte Tombea

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Nel XV secolo è documentata per la prima volta la lite scaturita fra le comunità di Val Vestino, esclusa quella di Bollone, con quella di Storo per lo sfruttamento, possesso e utilizzo dei pascoli d'alpeggio di malga Tombea. Il documento consistente in una pergamena, scritta in latino, conservata presso l'archivio storico del comune di Storo[44][45], fu copiato, tradotto e pubblicato dal ricercatore Franco Bianchini nel 2009[46] e riportato nelle sue parti essenziali da Michele Bella nel 2020[47]. Al centro della discordia vi era la delimitazione del "confine" montano riconducibile con molta probabilità alla zona della conca pascoliva con la sua preziosa pozza d'abbeverata compresa tra il Dosso delle Saette e Cima Tombea, detta la Piana degli Stor, e più a ovest la prateria verso la Valle delle Fontane e la Bocca di Cablone. In quei tempi, a quanto sembra, non era stato mai definito legalmente a chi appartenesse quel territorio, nessun cippo era stato collocato e la conoscenza dei luoghi era basata sull'usanza e la tradizione orale dei contadini sedimentatasi nel tempo. Le praterie delle comunità valvestinesi erano a quel tempo assai ridotte e le sole malghe Corva, Alvezza, Bait, Selvabella e Piombino non erano sufficienti a soddisfare i bisogni degli allevatori e queste "erbe" d'alta quota erano fondamentali per la sopravvivenza delle comunità rurali locali che necessitavano di ulteriori pascoli ove condurre in estate, dai primi di luglio a circa il 10 agosto, le proprie mandrie. Non si conoscono le cifre esatte dei capi di bestiame di quel secolo, ma una stima del 1946 rende noto che i malghesi potevano disporre per la sola monticazione del monte di circa 180 capi di mucche da latte e manze, terminato il periodo della malga il prativo veniva occupato dal bestiame minuto, capre e pecore, presente nell'alpeggio della Valle di Campei.

La controversia iniziò venerdì 21 agosto del 1405 nella contrada Villa di Condino sulla piazza Pagne "nei pressi della casa comunale presenti il maestro fabbro Glisente del fu maestro fabbro Guglielmo, Giovanni detto Mondinello figlio del fu Mondino, Antonio figlio di Giovanni detto Mazzucchino del fu Picino, tutti costoro della contrada Sàssolo della detta Pieve di Condino; Condinello figlio del fu Zanino detto Mazzola di detta contrada di sotto della soprascritta terra di Condino, ed Antonio detto Rosso, messo pubblico del fu Canale della villa di Por della Pieve di Bono, ora residente nella villa di Valèr della detta Pieve di Bono e predetta diocesi di Trento e molti altri testimoni convocati e richiesti" si unirono in presenza dei due procuratori delle comunità in causa per discutere e cercare un compromesso arbitrale definitivo che ponesse termine alla lite dei confini montani. Il notaio Pietro del fu notaio Franceschino di Isera, cittadino di Trento e abitante nella villa di Stenico delle Valli Giudicarie, con la collaborazione del notaio Paolo, stilò un documento su pergamena, identificando innanzi tutto presenti, valutando i loro mandati e i documenti prodotti dalle parti.

La comunità di Storo era rappresentata da Benvenuto detto “Greco” figlio del fu Bertolino della villa di Storo, "legittimo ed abilitato sindico-procuratore e gestore degli interessi degli uomini e persone nonché della comunità ed universalità di detta villa di Storo, con documento pubblico redatto di mano e con segno notarile di Bartolomeo del fu notaio Paolo della contrada Levì (o Levìdo) della Pieve di Bono, pubblico notaio di licenza imperiale, agente e richiedente da una parte"; mentre quella della Val Vestino da Giovannino del fu Domenico della terra di Turano della Valle di Vestino della diocesi di Trento, "abilitato sindico-procuratore e gestore degli interessi degli uomini e persone nonché della comunità ed universalità delle ville di Magasa, Armo, Persone, Turano e Moerna di detta Valle di Vestino, con documento pubblico redatto di mano e con segno notarile di Franceschino del fu Giovannino fu Martino della terra di Navazzo del Comune di Gargano delle Riviera del Lago di Garda della diocesi di Brescia, agente in sua difesa dall’altra parte". La questione esposta era prettamente confinaria, costoro infatti dichiarano pubblicamente "di voler giungere alla concordia e dovuta risoluzione e pacificazione della lite a lungo vertente fra i predetti uomini e persone e comunità delle terre di Magasa, Armo, Persone, Turano e Moerna della soprascritta Valle di Vestino ed al fine di evitare spese ed eliminare e mitigare danni, scandali, risse e discordie, per il bene della pace e della concordia, affinché perpetuamente e vicendevolmente regni fra le dette parti l’amore, a proposito della lite e questione del monte denominato Tombea situato ed ubicato nei territori e fra i monti e confini degli uomini e delle comunità di dette terre di Magasa, Armo, Persone, Turano e Moerna della soprascritta Valle di Vestino da una parte, ed i monti e confini della comunità ed università della detta terra di Storo dall’altra, poiché a mattina ed a settentrione confinano gli uomini e le persone della Valle di Vestino, ed a mezzogiorno ed a sera confinano gli uomini e persone della detta terra di Storo, la quale lite era la seguente".

Entrambi i procuratori portarono a sostegno delle loro affermazioni testimoni che sostenevano, basandosi sulle antiche tradizioni e consuetudini, che il territorio spettava da tempi immemori a questa o a quell'altra comunità, ma nessun documento scritto fu prodotto a loro favore che permettesse di dimostrare con certezza la proprietà. Infatti Benvenuto detto “Greco” dichiarò che il monte di Tombea, situato ed insistente fra i suddetti confini e con tutte le sue competenti adiacenze e confinanze, spettava di diritto agli uomini della terra di Storo, e "che lui stesso e gli uomini della comunità di Storo, così come i loro predecessori, già da 10, 20, 30, 50, 80 e 100 anni ed oltre, da non esservi alcuna memoria in contrario, con ogni genere di armenti detti uomini pascolarono sul monte denominato Tombea come territorio di loro libera proprietà, senza alcuna molestia, disturbo o contraddizione da parte degli uomini e persone delle comunità ed universalità delle predette terre di Magasa, Armo, Persone, Turano e Moerna".

Altresì Giovannino del fu Domenico della terra di Turano prontamente ribatté negando la ricostruzione narrata da Benvenuto detto “Greco” e asserì che il monte Tombea nella sua totalità, con tutte le sue adiacenze e confinanze, spettava di diritto esclusivamente agli uomini delle comunità di Magasa, Armo, Persone, Turano e Moerna ed in nessun altro modo agli uomini di Storo. Vista la divergenza tra le parti, la soluzione migliore per definire la controversia parve a tutti i presenti l'arbitramento. Con questo tipo di contratto le due parti litiganti devolvevano la risoluzione della contesa al giudizio di una o più persone scelte liberamente. Quindi i due "sindaci" nominarono alcuni pacificatori chiamati pure arbitri, definitori o probiviri.

Benvenuto detto “Greco” scelse, nominò e completamente si affidò a Giacomo figlio del fu Giovannino della terra di Agrone della Pieve di Bono, Giovanni detto Pìzolo, residente nella contrada di Condino, al figlio del fu Guglielmo detto “Pantera” di Locca della Valle di Ledro della diocesi di Trento ed un tempo residente nella terra di Por, il notaio Giacomo della terra di Comighello della Pieve del Bleggio, ed il notaio Giovanni del fu notaio Domenico di Condino. Giovannino fu Domenico scelse, nominò e completamente si affidò a Picino del fu ser Silvestro detto “Toso” della terra di Por, Franceschino fu ser Giovannino della detta terra di Agrone, Giovanni fu ser Manfredino della terra di Fontanedo della Pieve di Bono e Giovanni figlio di Pizino detto “Regia” fu Zanino della contrada di Sàssolo della Pieve di Condino.

Gli arbitri furono investiti dell'autorità "di ascoltare le parti, decidere, definire, giudicare, sentenziare e promulgare, ovvero di disporre e giudicare con relative disposizioni, sentenze e di imporre di non opporsi e ricorrere su quanto deciso e sentenziato in alcuna sede di giudizio, con documenti scritti o senza in qualsiasi sede giuridica, sempre ed in ogni luogo, sia con le pareti avverse presenti o assenti su quanto richiesto e successivamente solennemente deliberato. Ragion per cui le suddette parti in causa convennero di obbedire ed in toto osservare quanto sarà prescritto nelle loro sentenze di qualunque contenuto ed in qualunque sede giudiziale". Fu stabilito che in caso di non osservanza dell'accordo l'applicazione di una ammenda di 200 ducati da versare metà alla camera fiscale del principe vescovo di Trento e l’altra metà al nobile Pietro Lodron "signore generale di dette terre di Magasa, Armo, Persone, Moerna e Turano della Valle di Vestino". Inoltre le parti contraenti si impegnarono di rifondere tutti i danni causati e le spese sostenute con relativi interessi in caso di condanna in sede giudiziale garantendo la quantità di denaro stimata con un'ipoteca di tutti i beni personali in loro possesso, presenti e futuri, e quelli della rispettive comunità.

Al termine Benvenuto detto “Greco” e Giovannino fu Domenico giurarono con tocco di mano sulle sacre scritture di osservare tutte le suddette deliberazioni e chiesero al notaio di stilare un pubblico documento da consegnare ad entrambe le singole parti contendenti. Fungevano da giudici di appello il nobile Pietro del fu Paride di Lodrone[48], "quale signore generale degli uomini e persone delle comunità ed università delle terre di Magasa, Armo, Persone, Moerna e Turano della Valle di Vestino e l’onorabile signor Matteo, notaio e cittadino di Trento ed assessore del nobile Erasmo di Thun in Val di Non, vicario generale nelle Giudicarie per conto del principe vescovo di Trento Giorgio nonché generale signore e pastore degli uomini e della comunità di Storo".

1511, la grande divisione di pascoli e boschi dei monti Camiolo, Tombea, Dos di Sas e della costa di Ve

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Lo studio compiuto da don Mario Trebeschi , ex parroco di Limone del Garda, di una sgualcita e a tratti illeggibile pergamena conservata presso l’Archivio Parrocchiale di Magasa, portò a conoscenza dell’intensivo sfruttamento dei pascoli d’alpeggio, dei boschi, delle acque torrentizie in Val Vestino che fu spesso causa di interminabili e astiose liti fra le sei comunità. In special modo nelle zone contese dei monti Tombea e Camiolo; ognuna di esse rivendicava, più o meno fortemente, antichi diritti di possesso o transito, con il risultato che il normale e corretto uso veniva compromesso da continui sconfinamenti di mandrie e tagli abusivi di legname. Pertanto agli inizi del Cinquecento, onde evitare guai peggiori, si arrivò in due fasi successive con l’arbitrariato autorevole dei conti Lodron ad una spartizione di questi luoghi tra le varie ville o “communelli”. Infatti questi giocarono un ruolo attivo nella vicenda, persuadendo energicamente le comunità alla definitiva risoluzione del problema con la sottoscrizione di un accordo che fosse il più equilibrato possibile, tanto da soddisfare completamente ed in maniera definitiva le esigenti richieste delle numerose parti in causa. Il 5 luglio del 1502 il notaio Delaido Cadenelli della Valle di Scalve redigeva a Turano sotto il portico adibito a cucina della casa di un tale Giovanni, un atto di composizione tra Armo e Magasa per lo sfruttamento consensuale della confinante valle di Cablone (nel documento Camlone, situata sotto il monte Cortina). Erano presenti i deputati di Armo: Bartolomeo, figlio di Faustino, e Stefenello, figlio di Lorenzo; per Magasa: Antoniolo, figlio di Giovanni Zeni, e Viano, figlio di Giovanni Bertolina. Fungevano da giudici d’appello i conti Francesco, Bernardino e Paride, figli del sopra menzionato Giorgio, passati alla storia delle cronache locali di quei tempi, come uomini dotati di una ferocia sanguinaria. Il 31 ottobre del 1511 nella canonica della chiesa di San Giovanni Battista di Turano, Bartolomeo, figlio del defunto Stefanino Bertanini di Villavetro , notaio pubblico per autorità imperiale, stipulava il documento della più grande divisione terriera mai avvenuta in Valle, oltre un terzo del suo territorio ne era interessato. Un primo accordo era già stato stipulato il 5 settembre del 1509 dal notaio Girolamo Morani su imbreviature del notaio Giovan Pietro Samuelli di Liano, ma in seguito all’intervento di alcune variazioni si era preferito, su invito dei conti Bernardino e Paride, revisionare completamente il tutto e procedere così ad una nuova spartizione. Alla presenza del conte Bartolomeo, figlio del defunto Bernardino, venivano radunati come testimoni il parroco Bernardino, figlio del defunto Tommaso Bertolini, Francesco, figlio di Bernardino Piccini, tutti e due di Gargnano, il bergamasco Bettino, figlio del defunto Luca de Medici di San Pellegrino, tre procuratori per ogni Comune, ad eccezione di quello di Bollone che non faceva parte della contesa (per Magasa presenziavano Zeno figlio del defunto Giovanni Zeni, Pietro Andrei, Viano Bertolini), e si procedeva solennemente alla divisione dei beni spettanti ad ogni singolo paese. A Magasa veniva attribuita la proprietà del monte Tombea fino ai prati di Fondo comprendendo l’area di pertinenza della malga Alvezza e l’esclusiva di tutti i diritti di transito; una parte di territorio boscoso sulla Cima Gusaur e sul dosso delle Apene a Camiolo, in compenso pagava 400 lire planet alle altre comunità come ricompensa dei danni patiti per la privazione dei sopraddetti passaggi montani. Alcune clausole stabilivano espressamente che il ponte di Nangone (Vangone o Nangù nella parlata locale) doveva essere di uso comune e che lungo il greto del torrente Toscolano si poteva pascolare liberamente il bestiame e usarne l’acqua per alimentare i meccanismi idraulici degli opifici. Al contrario il pascolo e il taglio abusivo di piante veniva punito severamente con una multa di 10 soldi per ogni infrazione commessa. Alla fine dopo aver riletto il capitolato, tutti i contraenti dichiaravano di aver piena conoscenza delle parti di beni avute in loro possesso, di riconoscere che la divisione attuata era imparziale e di osservare rispettosamente gli statuti, gli ordini, le provvisioni e i decreti dei conti Lodron, signori della comunità di Lodrone e di quelle di Val Vestino. Poi i rappresentanti di Armo, Magasa, Moerna, Persone e Turano giuravano, avanti il conte Bartolomeo Lodron, toccando i santi vangeli, di non contraffarre e contravvenire la presente divisione terriera e, con il loro atto, si sottoponevano al giudizio del foro ecclesiastico e ai sacri canoni di Calcedonia[49].

La Valle delle streghe

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A causa del suo stato selvaggio e del suo isolamento, nei secoli passati la Val Vestino era ritenuta dalla credenza popolare locale di cultura contadina, ma anche in quella forestiera, una dimora di streghe, orchi, stregoni e diavoli, presunti responsabili delle terribili grandinate, intemperie e malefici che periodicamente si abbattevano sui paesi e sui poveri abitanti. Sorsero così nei secoli numerose leggende che tramandate oralmente furono raccolte in loco dal maestro Vito Zeni e pubblicate in “Miti e leggende ed alcuni fatti storici di Magasa e della Valle di Vestino” nel 1985. A tal proposito a Magasa si conserva un toponimo a Cima Rest, lungo la mulattiera che scende a Cadria, consistente nella "fontana de la Stria", ove secondo i racconti arcaici si dissetava la strega, sulla cresta compresa tra la Bocca di Valle e la Bocca di Cablone esiste un pertugio denominato Büs de la Stria, mentre un altro luogo stregato è il Büs de le Strie, presso Costa-Mignone in Val Vestino, un pozzo di 15 metri che sarà particolarmente temuto nel passato dagli abitanti della zona convinti che fosse abitato dalle streghe e risucchiasse i curiosi che, ignari del pericolo, si avvicinavano troppo alla bocca della cavità. Nella valle del torrente Personcino vi è un covolo detto dell'Orco in quanto ritenuto dimora di questo essere mitologico. Nel 1913 il glottologo Carlo Battisti riportò nella sua ricerca sul dialetto della Val Vestino che gli abitanti della comunità di Persone venivano soprannominati: "striù", stregoni.

“Lares”, la più antica fra le riviste italiane di studi antropologici oggi esistenti, riportò in una sua ricerca del 1938, edita a Firenze, basandosi presumibilmente sugli studi un loco del linguista Carlo Battisti, che: “Ancora nella metà del XIX secolo in alcuni paesi delle nostre montagne (Val Vestino) durava ancora la credenza che intorno ad alcuni alberi distinti per la loro grandezza e vetustà, si tenessero durante la notte raduni di streghe e stregoni, ed alcuni di quegli alberi furono abbattuti onde rendere praticabile ed abitabile quel luogo”[50].

I protagonisti della stregoneria non esistevano solamente nell’immaginario collettivo ma erano persone reali, uomini e donne, che spesso venivano denunciati dai popolani alle autorità come fautori di riti e pratiche magiche. Le accuse cadevano di norma sulle fattucchiere, i guaritori o chi era affetto da malattie psichiche ma taluni per vendetta al fine di vendicarsi di torti subiti, indicavano questo o quell’altro individuo. Gli accusati venivano poi sottoposti al giudizio dei tribunali dell’inquisizione ma anche a quelli ordinari, che erano soliti utilizzare la tortura per fare confessare il presunto colpevole. Il processo terminava per lo più con la condanna a morte al rogo e per i reati più lievi erano previste pene pecuniarie o detentive.

Oltre la Valle, sulla sponda veronese del lago di Garda, a Lazise, si narra in una leggenda che coinvolge le streghe valvestinesi e quelle del castello di Mondragone, che un barcaiolo lacisiense, in una notte di temporale, fu costretto da due streghe del castello di Mondragone a trasportale nel golfo di Salò. Qui, costoro si incontrarono con un'altra barca proveniente dalla sponda opposta, quella bresciana, con altre due streghe della Val Vestino. Così dopo un breve conciliabolo decisero di scatenare un terribile temporale che andasse a colpire le campagne dei lacisiensi, rei di aver importunato le due donne di Mondragone. Il piano fu ben presto realizzato quando le quattro streghe sbarcarono nel porto di Lazise, scatenando un tremendo temporale proveniente da occidente che causò danni immensi alla popolazione e si concluse con la stessa distruzione del castello di Mondragone, causata da un fulmine. Ancora oggi, quando i temporali provengono dalla Val Vestino, e si manifestano in modo piuttosto violento sulle terre orientali del lago di Garda è uso comune dire che “giungono dalla Val delle Strie”[51].

Anche le piante naturali influenzarono l'immaginario popolare come la nigritella, un fiore tinto di rosso vivissimo e dal profumo intenso, per cui è detta anche "vaniglione", vegeta sul monte Tombea, era considerata un fiore magico, legato ai riti di stregoneria, tenuto in conto particolare nella tradizione popolare, che compare in molte leggende. Nel biellese ha nome concordia, o "discuncordia", secondo i tuberi e la loro disposizione, che possono presentarsi congiunti, quasi palmo a palmo. In Val Vestino il suo nome è "pegnót" o "penót" che significa "piccolo pugno", nel Tirolo è detta "Handkraut" che significa "erba manina". Anche il tubero della nigritella è diviso in due e a Bormio, secondo il Cesare Beccaria, il nome che oppone i due tipi è detto "man del diául" e "man del Signór". Altra credenza popolare attribuiva un'importanza soprannaturale al "cerchio delle streghe", un anello di circa 10 metri di diametro formato da funghi. Il fenomeno è causato da circa 60 specie di funghi, appartenenti ai basidiomiceti[52] ma questi cerchi occupavano un posto importante nella mitologia europea, dove erano ritenuti le porte di regni fatati o luoghi in cui, a seconda delle diverse tradizioni, danzavano streghe, fate o elfi. Spesso erano ritenuti luoghi pericolosi, ma a volte potevano essere legati alla buona fortuna.

Dal punto di vista storico non sono presenti negli archivi documenti riguardanti processi di stregoneria che abbiano coinvolto gente di Valle antecedentemente il XVIII secolo, cosa peraltro riscontrabile nella Valle del Chiese o a Nogaredo allora territorio del Principato vescovile di Trento ove nel 1647 furono condannate alla decapitazione otto donne del luogo oppure nella Serenissima Val Camonica con i noti processi celebrati tra il 1518 e il 1521 che si conclusero con 70 condanne a morte. L'ultima condanna a morte nel Principato vescovile di Trento risale il 18 marzo 1717 con l'esecuzione, mediante taglio della testa e rogo del corpo, della strega Domenica Pedrotti detta Zambella a Villa Lagarina, feudo della famiglia Lodron di Castellano e Castelnuovo retto da Carlo Venceslao Lodron[53]. In Trentino fu solamente a Settecento inoltrato con l'affermarsi dell'illuminismo e di una nuova cultura giuridica dovuta alle riforme di Maria Teresa d'Austria e di Giuseppe II d'Austria che si pose termine ai processi per stregoneria.

1835-1856, l'indagine etnografica di Francesco Lunelli

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Negli anni che vanno dal 1835 al 1855 don Francesco Lunelli, insegnante di fisica all'Imperial Regio ginnasio liceale di Trento, compì un'indagine che permise una migliore magasa del Trentino attraverso lo studio delle tradizioni popolari e dei dialetti delle varie valli. Fu nell'Ottocento che nacquero all'estero e cominciarono a diffondersi anche in Italia gli studi etnografici anche se nel periodo napoleonico molti problemi erano rimasti esclusi. Praticamente l'indagine del Regno Italico aveva sfiorato il Trentino, senza penetrare in profondità nel suo tessuto. Il grande merito del Lunelli fu quello di riallacciarsi alle inchieste demologiche napoleoniche degli anni 1810-1811 e di raccogliere i dati che mancavano. Scriveva tra l'altro: "Val Vestina. Tal contrada è abbellita da sei villaggi che da occidente verso settentrione si succedono con questo ordine: Bolone, Moerna, Persone, Armo, Magasa e Turano che n'è la parrocchia. Il maggiore è Magasa che conta 485 abitanti e tutta la regione 1 430; un secolo e mezzo fa non ne aveva che 1 000. Da ciò risulta l'aspetto della valle essere veramente pittoresco; un variabilissimo quadro campestre in una cornice di monti verdissimi d'ogni sorta d'alberi a foglia e a spine, solo sulle frane ombrose o sulle vette. A ciò si aggiunga, tanta ivi essere la salubrità dell'aria che i Valvestini credono di morir anzi tempo se muoiono sessagenari. Essi sono grandi di statura, ben fatti; fronte alta, faccia stretta, pallida, bruna, capelli e occhi scintillanti, profili greci, monumentali membra rotonde robustissime. Vestito semplice e simile a quelli di Val Bona e similmente semplici i costumi, ma di animo più intelligenti e perspicaci. Parlano un dialetto poco diverso da quei del Chiese"[54]. Questa di Lunelli fu la prima inchiesta etnografica fatta nel Trentino e in Val Vestino, estremamente ricca di dati e di particolari originali, un lavoro eccezionale per l'epoca, vista la mancanza di mezzi finanziari e di documentazione metodologica[55].

1840. La ricerca del geografo Attilio Zuccagni-Orlandini e l'economia di Valle

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Il geografo e cartografo Attilio Zuccagni-Orlandini nei decenni antecedenti il 1840 fu tra i primi ricercatori ad avventurarsi in Valle salendo da Bondone la disastrosa mulattiera del monte Cingolo Rosso, così la definì, intento all'apprendimento di quelle conoscenze necessarie per completare il suo studio del territorio trentino anche dal punto di vista statistico, che poi descrisse dettagliatamente nella sua nota e monumentale pubblicazione riguardante l'Italia corografica edita nel 1840 a Firenze, scrisse: "Quell'ultimo angolo meridionale del Trentino che giace tra i due laghi d'Idro e di Garda, è formato dalla Valle di Vestina, cui traversa il Toscolano tributante le sue acque al Benaco presso la terra omonima: questa valletta è di figura quasi circolare, coronata dai monti Stino, Cingolorosso, Alpo, Gazza o Tombea, Puria e Vesta, dall'ultimo dei quali essa prende il nome: il di lei bacino contiene piccoli piani, poggetti e colline, bagnate alle falde dai rivi Personcino, Armarolo e Magasino, primi tributario del Toscolano..."[56].

Orlandi non macò di riportare la composizione politica e statistica del Distretto di Condino anticipando quella di Agostino Perini del 1852: "Appartiene a questa Giudicatura di Distretto l'estrema punta meridionale del Trentino situata a ponente del Benaco e denominata Valle Vestina, cui irriga il Toscolano. Vi si giunge da Bondone, per un sentiero che passando pel Monte Cingolo Rosso, guida alla cima dello Stino e quindi a Moerna dopo due ore circa di ascensioni e discese disastrose assai, e non praticabili che da pedoni. L'angusta e montuosa vallicella è abbellita da sei soli villaggi, denominati Bollone, Moerna, Persone, Armo, Magasa e Turano. Il più popoloso di essi è Magasa che conta 485 abitanti, sopra i 1430 della vallata: la parrocchia però è in Turano: in generale le abitazioni sono d'aspetto assai decente e fabbricate con molta intelligenza d'arte".

Orlandi terminò il suo studio con l'esposizione dell'economia della Val Vestino: "Gli abitanti della vallata coltivano parte delle loro terre a grano, ma in maggior estensione a fieno. Si danno alla pastorizia: allevano pecore capre e particolarmente vacche che vi riescono bellissime, ed impiegano il rimanente del tempo nel far carbone; anzi molti di essi vanno a farne in estate nelle valli limitrofe di Ledro, di Bono e di Brescia; non ritornando a casa che nel tempo necessario a segare i prati e mettere al coperto i fieni. Raccolgono granaglie per circa sei mesi dell'anno, e sono al tutto mancanti di vigne e di gelsi. Vendono fuori del territorio gran quantità di carbone, burro, formaggio, vitelli, capretti, vacche e miele; di quegli oggetti trovano smercio principalmente a Gargnano, a Toscolano, a Maderno e a Salò ove poi si procacciano i generi mancanti ai consumi. Tra i prodotti naturali di questa vallicella merita particolar menzione una specie di squisitissime piccole trote che si pescano nell'Armarolo e che chiamano miniate, a cagione delle macchie aureo-argentine che abbelliscono il loro corpo; dicesi che di quella specie non se ne trovino che in quel fiume e nella riviera Salodiana. Come gli abitanti di Val di Ledro traggono profitto dalla caccia degli uccelli, moltissimi prendendone per poi mandarli a vender fino a Brescia, così questi di Val Vestina trovano nella caccia e lucro e passatempo"[57].

I danni dell'alluvione 1850 in Val Vestino

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Il 27 maggio prima e il 18 giugno 1850 poi furono giornate di piogge torrenziali e insistenti in tutta Italia. Nel bresciano tutti i torrenti uscirono dall’alveo, invasero campi e strade, rovinarono case e stalle, ma fu in agosto che una forte perturbazione atmosferica si abbatté nuovamente sul nord Italia causando danni ulteriori in Friuli, in Alto Adige e in Lombardia.

Le cronache di Carlo Cocchetti pubblicate in "Brescia e la sua provincia" e edite a Milano nel 1858, riportano che la sera del 14 agosto un violento nubifragio colpì anche la Valle Trompia; le piogge, copiose e ininterrotte, caddero per l’intera notte facendo tracimare in più punti il Mella e i torrenti affluenti. Gli attuali comuni di Tavernole, Marcheno, Gardone, Sarezzo e Collebeato furono allagati, danneggiati, travolti; pure altri centri subirono vittime e danni consistenti. A Gardone 14 officine armiere furono spazzate via dalla furia delle acque, compromettendo seriamente l’economia locale. A Sarezzo il torrente Redocla, che percorre una breve ma irta valle laterale, cancellò un vigneto presso la chiesa parrocchiale e, interrandosi, riportò alla luce arche di pietre e ossa.

Anche la Val Vestino fu duramente percossa da temporali e pioggia, la comunicazione stradale con la Riviera di Salò fu devastata, i ponti in legno del Pegòl, della Stretta, del mulino di Turano, della Fucina o di Nangù e dell'Hanèc che scavalcano il torrente Armarolo, il Toscolano e l'Hanèc, tutti siti nel territorio comunale di Turano, furono distrutti o severamente danneggiati. "La terribile alluvione qui avvenuta nell’agosto pp. atterrò i vari ponti in legno sul torrente Toscolano del comune di Turano, ponti questi che non solo mantengono la comunicazione di questo Comune con gli altri paesi della Valle di Vestino, ma eziandio colla Riviera limitrofa di Salò, con cui questi abitanti praticano il loro commercio, e da cui ritraggono i generi di prima necessità, ed altri occorribili ai comodi e bisogni della vita. Pella mancanza adunque di questi ponti al minimo ingrossare delle acque di quel fiume rimane interrotta la detta comunicazione con notabile pregiudizio di questi abitanti".

Il giovane podestà di Magasa, il dottor Giuliano Venturini, così chiese, con questa lettera datata 21 ottobre 1850, al Capitano Distrettuale di Tione di intervenire al più presto. Ma il Capocomune di Turano rispondeva però il 21 novembre che non era tenuto alla concorrenza nella ricostruzione dei ponti sul Toscolano perché nessun atto antico lo prevedeva anzi, precisava che "da uno statuto di valle si raccoglie il seguente tenore che non poco giova a spalleggiare la ragione di questo comune nel particolare di cui trattasi ed eccone i senso: Tutte le Terre di questa Valle di Vestino sono tenute, ed obbligate ad accomodare, e mantenere le strade, e i ponti sopra i fiumi, ognuna cioè quelle o quelli che si ritrovano nel proprio tenere dalla cima al fondo di essa Valle, a spese, e danni particolari delle terre dove occorreranno acconciarsi, e mantenersi dette strade e ponti".

Il Capitano a questo punto ordinò "un comizio de’ due comuni locali, onde stabilire quanto è di comune utilità" affinché la spesa non rimanesse solo a carico dell’uno o dell’altro comune ma venisse stabilito bene l’uso e quindi l’onere a carico di entrambi.

Nei mesi successivi la strada fu riattata alla meno peggio, i ponti furono ricostruiti in legno ma rimarranno in stato precario fino a fine Ottocento quando si mise mano a un rifacimento sostanziale in pietra dei manufatti e della viabilità.

La pratica venatoria

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Delle prime notizie sulla pratica della caccia in Valle, le apprendiamo da uno scritto del lontano 1840 del geografo Attilio Zuccagni-Orlandini, che scriveva riguardo l'economia locale: "Come gli abitanti di Val di Ledro, quelli di Val Vestina, traggono profitto dalla caccia degli uccelli, moltissimi prendendone per poi mandarli a vender fino a Brescia, così questi di Val Vestina trovano nella caccia e lucro e passatempo"[58]. La montagna di Camiolo fu sempre tra i luoghi di caccia preferiti dei conti Bettoni, famiglia nobile originaria di Gargnano. Difatti il conte Ludovico Bettoni Cazzago, nativo di Brescia e vissuto nel corso dell'Ottocento, politico e senatore del Regno, è riportato dalle cronache di famiglia che preferiva la caccia vagante a beccacce, lepri, galli cedroni in Val Vestino o sulle montagne di Tremosine, ove si recava con grandi mute di cani, in compagnia dei suoi contadini e di molti amici, fra cui, Agostino Conter.

Più tardi, nel 1896, scriveva da Rasone di Gargnano su una rivista della caccia, una cacciatore a riguardo della pochezza di numeri della selvaggina e dei mezzi illegali praticati per cacciarla comprese anche nelle montagne della Val Vestino. La firma dell'articolo è anonima, ma visto che il luogo era la residenza di montagna dei conti Bettoni, forse l'articolista apparteneva a quella nobile famiglia e si può supporre che fosse lo stesso conte Ludovico Bettoni: "Rasone di Gargnano, 11 ottobre. Oggi abbiamo un tempo indiavolato, acqua, vento e nebbia ei tengono odiosa compagnia. Di fringuelli e di altri uccelli in genere se ne è fatto una ecatombe nei giorni scorsi, ma di beccacce qui non abbiamo avuto il bene di vedere una fino ad ora. Il dispiacere viene lenito però da qualche pernice, coturna e lepre, ma in massima caccia magra. Non vi tenni parola della mia gita in Valle di Vestino, perché ebbi una quasi disillusione, quantonque sia stato più fortunato di tanti altri. Dalle risultanze debbo conchiudere che se non viene provveduto per tempo, la selvaggina stazionaria andrà presto a scomparire causa molteplici mezzi illegali che vengono impiegati per l'aucupio della medesima. Dalle relazioni che leggo posso con sicurezza ritenere che anche i cacciatori della pianura ottengono tisici risultati dalle loro cinegetiche escursioni, per cui si può ripetere che: "Se Messena piange, Sparta non ride". Miss". Aggiungeva il nostro a riguardo del fenomeno del bracconaggio: "La caccia in montagna praticata nei territori di Tignale, Tremosine, Cadria, Val Vestino, Bagolino, nella Valsesia ed in parte dell'alta Val Camonica, fatta eccezione alla regina del bosco, ha lasciato grati ricordi, pel fatto che di pernici, coturnici, pernici bianche, galli di monte e lepri se ne son fatte soddisfacenti prese, ad onta del crescente bracconaggio, che per non vedersi represso, va ogni giorno aumentando in audacia"[59].

Nel 1940, il prefetto di Trento ritenuta l'opportunità di disporre fino nuovo ordine il divieto assoluto di caccia e di uccellagione nel territorio della provincia di Brescia costituente la riserva di caccia di Valvestino, "la cui concessione è stata disposta con decreto del Prefetto di Trento in data 19 agosto 1931-IX, numero 23881/TII B, decretò ai sensi dell'articolo 23 del ricordato testo unico viene disposta, fino a nuovo ordine, il divieto assoluto di caccia e di uccellagione nella riserva di caccia di Valvestino, la concessione è stata disposta con decreto del Prefetto di Trento in data 19 a posta 11-1X, n. 3881/111 B. Il Comitato provinciale della caccia di Brescia è incaricato della esecuzione del presente decreto. Il presente decreto sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno. Roma, ddl 22 dicembre 1940-XIX. Il ministro Tassinari"[60].

Il vecchio confine di Stato di Lignago. Il Casello di Dogana di Gargnano detto della Patoàla e le sue due sezioni

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L'ex caserma o Casello della Regia Guardia di Finanzain località Patoàla, oltre la Valle di Fassane

Il territorio della Val Vestino divenne italiano ufficialmente il 10 settembre 1919 con il trattato di pace di Saint Germain: verso il 1934 fu posizionata per volontà dell'allora segretario comunale di Turano, Tosetti, una targa lapidea all'inizio della Valle del Droanello presso l'ex strada provinciale che correva lungo il greto del torrente Toscolano, nella località Lignago. Essa indicava il vecchio confine esistente tra il Regno d'Italia e l'Impero d'Austria-Ungheria dal 1802 fino al termine della Grande Guerra, nel 1918. Questa lapide fu poi ricollocata con la costruzione dell'invaso artificiale nel 1962 nella posizione attuale, sempre in località Lignago, presso il terzo ponte del lago di Valvestino, detto della Giovanetti prende il nome dalla ditta che lo costruì[61], mentre a poca distanza da questa l'edificio della vecchia caserma della Patoàla della Regia Guardia di Finanza è oggi sommerso dalle acque della diga. Questo era stato costruito nel XIX secolo, quando ancora il lago non c’era, serviva a controllare il transito delle merci attraverso il confine. Fu poi dismesso dopo la fine della guerra e delle ostilità, esattamente nel 1919.

Un casello di dogana esisteva originariamente al Ponte Cola, già a partire dal 1859 a seguito della cessione da parte dell'Austria, sconfitta, della Lombardia al Regno d'Italia, precisamente sul Dosso di Vincerì, ove sorge l'attuale diga del lago di Valvestino. Infatti il 30 dicembre 1859 il re Vittorio Emanuele II istituì nelle provincie della Lombardia gli uffici di dogana a Gargnano, Salò, Limone del Garda, Anfo, Ponte Caffaro, Bagolino e Hano (Capovalle), quest'ultimo dipendente dalla sezione di Maderno e dall'Intendenza di Finanza di Brescia. Due mesi dopo, con la circolare del 20 febbraio 1860 n.1098-117 della Regia Prefettura delle Finanze inviata alle Intendenze di Finanza del Regno si emanavano le prime disposizioni a riguardo della vigilanza sulla linea di confine di Stato e prevedeva che: "Nella Provincia di Brescia e sotto la dipendenza di quell' Intendenza delle Finanze si stabilirà un'altra Sezione della Guardia di finanza che avrà il N. XIII ed il cui Comando risiederà a Salò, per la Dirigenza dei Commissariati di Salò e di Vestone, e inoltre di un Distretto di Capo indipendente a Tremosine incaricato della sorveglianza del territorio al disopra di Gargnano[62]".

Nel 1870 era già attiva la sezione del Casello di Gargnano presso l'abitato di Hano, sul Dosso Comione, a controllo dell'accesso carrabile della Val Vestino verso Moerna e come ricevitore reggente di 8ª classe figurava Vincenzo Bertanzon Boscarini. Ma è nel 1874 con il riordino delle dogane che il casello fu spostato più a nord in località Patoàla e chiamato nei documenti ufficiali Casello di Gargnano con due sezioni di Dogana: una a Bocca di Paolone e l'altra a Hano, Capovalle, in località Comione. Secondo la legge doganale italiana del 21 dicembre 1862, i tre caselli essendo classificati di II ordine classe 4ª, avevano facoltà di compiere operazioni di esportazione, circolazione e importazione limitata, e III classe per l'importanza delle operazioni eseguite, era previsto che al comando di ognuno vi fosse un sottufficiale, un brigadiere. I militari della Regia Guardia di Finanza dipendevano gerarchicamente dalla tenenza del Circolo di Salò per il Casello di Gargnano (Patoàla), la sezione di Bocca di Paolone e la caserma di monte Vesta, la sezione di Hano (Comione) dalla tenenza di Vesio di Tremosine, mentre le Dogane dalla sede della Direzione di Verona.

La caserma sul monte Vesta e quella di Bocca Paolone furono costruite nel 1882, quest'ultima fu ampliata nel 1902 ed era considerata una sezione della Dogana, come quella di Hano a Comione i cui lavori di rifacimento terminarono nel 1896, in quanto collocata in un luogo distante dalla linea doganale, classificato come un posto di osservazione per vigilare ed accettare l'entrata e l'uscita delle merci. Le casermette dette demaniali di monte Vesta con quelle di Coccaveglie a Treviso Bresciano e più a sud del Passo dello Spino a Toscolano Maderno e della Costa di Gargnano completavano la cinturazione della Val Vestino con lo scopo principale del controllo dei traffici e dei pedoni sui passi montani. Le merci non potevano attraversare di notte la linea doganale, ossia mezz'ora prima del sorgere del sole e mezz'ora dopo il tramonto dello stesso. Era previsto dalle disposizioni legislative che la "Via doganale" fosse "la strada che dalla valle Vestino mette nel regno costeggiando a diritta il fiume Toscolano: rasenta quindi la cascina Rosane e discende al fiume Her, ove si dirama in due tronchi, uno dei quali costeggiando sempre il detto fiume conduce a Maderno e l'altro per la via dei monti discende a Gargnano". Le pene per il contrabbando erano alquanto severe, prevedendo oltre all'arresto nei casi più gravi, la confisca delle merci o il pagamento di un valore corrispondente, la perdita degli animali da soma o da traino, dei mezzi di trasporto sopra cui le merci fossero state scoperte. Temperava, però, tale eccessivo rigore, il sistema delle transazioni, grazie alle quali era possibile concordare l'entità della sanzione applicabile, anche con cospicue riduzioni della pena edittale.

A seguito del trattato commerciale tra il Regno e l'Austria-Ungheria del 1878 e del 1887 furono consentite particolari agevolazioni ad alcuni prodotti pastorali importati dalla Val Vestino qualora fossero accompagnati dal certificato d'origine. Era previsto che la Dogana di Casello della Patoàla nel comune di Gargnano, della sezione di Casello di Bocca di Paolone a Tignale o della sezione di Casello di Comione a Capovalle dovessero ammettere, come una riduzione del 50 per cento sul dazio: 25 quintali di formaggio, 65 di burro e 30 di carne fresca.

Nel 1892 le esenzioni fiscali fin lì praticate non furono bene accolte da alcuni politici del parlamento del Regno, che sottolinearono negli atti parlamentari: "Né vogliamo passare sotto silenzio i pensieri che hanno destato in noi le nuove clausole per la magnesia della Valle di Ledro e i prodotti pastorali di Val Vestino. Con queste clausole si aumenta, a favore dell'Austria, il numero, già abbastanza ragguardevole, delle eccezioni, mediante le quali le due parti contraenti accordano favori ristretti ai prodotti di determinate provincie. Vivi e non sempre ingiusti sono i reclami sollevati in varie parti del Regno da questa parzialità di trattamento e sarebbe stato desiderabile che, come fu fatto nel 1878 rispetto ai vini comuni, si tentasse di estendere i patti dei quali si discorre a tutte le provincie. Non dubitiamo che il Governo italiano si sia adoperato a tal fine con intelligente sollecitudine, ma dobbiamo rammaricarci che non ha ottenuto l'intento"[63]. Nello stesso anno, l'Intendenza di Finanza di Brescia rendeva noto che con decreto regio del 25 settembre, la sezione di Hano della Dogana di Gargnano veniva elevata a Dogana di II ordine e III classe[64].

Nel 1894 l'importazione consisteva in: "Carne fresca della Valle di Vestino importata per la Dogana di Casello, totale 196 q. Burro fresco della Valle Vestino importato per la Dogana di Casello, totale 2.048 q. Formaggio della Valle Vestino importato per la Dogana di Casello, totale 63.773 q."[65].

Nel 1897 l'Annuario Genovese chiariva le nuove disposizioni riguardanti la fiscalità dei prodotti importati: «Per effetto del trattato con l'Austria-Ungheria, il burro di Valle Vestino, importato per la dogana di Casello con certificati di origine, rilasciati dalle autorità competenti, è ammesso al dazio di lire 6.25 il quintale se fresco, ed al dazio di lire 8,75 il quintale, se salato, fino alla concorrenza di 65 quintali per ogni anno. Per effetto del trattato con l'Austria-Ungheria, il brindsa, specie di formaggio di pecora o di capra, di pasta poco consistente, e ammesso al dazio di lire 3 il quintale, fino alla concorrenza di 800 quintali al massimo per ogni anno, a condizione che l'origine di questo prodotto dell'Austria-Ungheria sia provata con certificati rilasciati dalle autorità competenti. Per effetto dello stesso trattato, il formaggio (escluso il brindza) della Valle Vestino, importato per la dogana di Casello con certificati di origine rilasciati dalle autorità competenti, e ammesso al dazio di lire 5.50 il quintale fino alla concorrenza di 25 quintali per ogni anno»[66].

Nel 1909 la Direzione delle Dogane e imposte indirette del Regno precisava che i Caselli doganali della Val Vestino erano due, quello della Patoàla e l'altro quello del Dosso Comione a Capovalle e la via doganale era: "La strada mulattiera, che dalla Val Vestino mette nel Regno per il ponte Her, ove si dirama in due tronchi che mettono l'uno al Casello, Maderno a Gargnano, e l'altro, seguendo le falde del monte Stino, ad Hano e Idro, costituisce la via doganale di terra poi transito delle merci in entrata e uscita. Autorizzata all'attestazione dell'uscita in transito delle derrate coloniali, del petrolio ed altri generi di consumo, compreso il sale, trasportati per la dogana di Riva di Trento e destinati ai bisogni degli abitanti in Val Vestino"[67].

Tra i vari avvicendamenti di servizio presso il Casello Doganale si ricorda nel 1911 quello del brigadiere scelto Aiuto Stefano assegnato, a domanda, alla reggenza della Dogana di Stromboli che venne sostituito, a domanda, dal brigadiere Aurelio Calva della Dogana di Luino[68]. Con lo scoppio fella Grande Guerra il Casello perse importanza e nel 1916 con le nuove disposizioni: "Vigilanza sul servizio di vendita dei generi di privativa. Circolare 13 aprile 1916 n. 1412 ai Comandi di Tenenza e di Sezione della R. Guardia di Finanza e, per conoscenza, al Comandi di Legione della R. Guardia di Finanza di Venezia e Milano, ed ai Commissari Civili. In dipendenza della circolare del 3 marzo 1916 n. 1430 (Doc. 149) con cui è stata determinata la circoscrizione dei re- parti della Guardia di Finanza nei territori occupati, si comunicano al Comandi di Tenenza e Sezione le prescrizioni per la vigilanza sul servizio di smercio dei generi di privativa, che anche nelle nuove regioni si effettua col concorso di due organi di distribuzione: gli uffici di vendita e le rivendite. I primi hanno sede nel Comuni di Cervignano, Cormons, Caporetto, Cortina d'Ampezzo, Fiera di Primiero, Grigno, Ala e Storo, sono gestiti da sottufficiali del Corpo e provvedono nell'ambito della circoscrizione dei singoli distretti politici al rifornimento delle rivendite ivi istituite, tranne che per gli esercizi della Val Vestino e della Vallarsa, aggregate agli uffici di vendita di Salò e Schio".

Il contrabbando del 1800

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L'ex caserma o casello della Regia Guardia di Finanza alla Patoàla, oltre il ponte sul Rio Costa

Il contrabbando delle merci per evitare i dazi di importazione fu un problema secolare per quegli stati confinanti con la Val Vestino. Già nel 1615 il provveditore veneto di Salò, Marco Barbarigo, riferiva che "non si ha potuto usare tanta diligenza che non se sia passato sempre qualcuno per quei sentieri scavezzando i monti per la Val di Vestino et con proprij barchetti traghettando il lago d'Idro et anco per terra, entrando nella Val di Sabbio nel bresciano andarsene al suo viaggio". In tal modo allertava il Consiglio dei Dieci sulla permeabilità dei confini di stato nelle zone montane con la stessa Repubblica di Venezia che poteva ovviamente diventare particolarmente pericolosa nel casi di passaggi di banditi, contrabbandieri o per persone che violavano le misure sanitarie eccezionali, la nota "quarantena", che veniva applicata ai viaggiatori provenienti da luoghi dove erano scoppiate[69].

Verso il 1882 il Regno d'Italia completò la cinturazione dei confini di Stato della Val Vestino con la costruzione dei tre citati Caselli di Dogana presidiati dai militi della Regia Guardia di Finanza. Le cronache narrano che presso il Casello di Dogana di Gargnano, della Patoàla, il professor Bartolomeo Venturini era solito nascondere il tabacco nel cappello per sfuggire ai controlli e alla tassazione.

Nel 1886 una relazione dell'amministrazione delle gabelle del Regio ministero delle Finanze affermava che il contrabbando era favorito dall'aggravamento delle tasse di produzione del Regno, dei dazi di confine e del prezzo dei tabacchi. La frontiera dell'Austria-Ungheria, presidiata da pochi agenti era particolarmente estesa e costoro non erano in grado di contenere "la fiumana di contrabbando irrompente con sfrontata audacia su tutti i punti di questa estesissima linea"[70]. Così furono istituite nuove Brigate di Finanza tra cui a Idro e Gargnano considerati "punti esposti". Bollone come Moerna, ma in generale tutti gli abitati di Valle e dell'Alto Garda Trentino e Bresciano, terre prossime alla linea di confine, diventarono così un crocevia strategico per il contrabbando di merci tra il territorio della Riviera di Salò e il Trentino attraverso la zona montuosa del monte Vesta, del monte Stino e dei monti della Puria. Lo storico toscolanese Claudio Fossati (1838-1895) scriveva nel 1894 che il contrabbando dei valvestinesi era l'unico stimolo a violare le leggi in quanto era fomentato dalle ingiuste tariffe doganali, dai facili guadagni e dalla povertà degli abitanti[71].

Nel 1894 è documentato il contrasto al fenomeno: l'Intendenza di Brescia comunicava che il brigadiere Rambelli Giovanni in servizio al Casello di Gargnano ottenne il sequestro di chilogrammi 93 di zucchero e chilogrammi 1.500 di tabacco di contrabbando e fu premiato con lire 25[72]. La guardia Bacchilega Luigi in servizio alla sezione di Dogana di Bocca di Paolone ottenne il sequestro di chilogrammi 47 di zucchero con l'arresto di un contrabbandiere e l'identificazione di un'altra persona, fu premiato con lire 15[73]. Lo stesso Bacchilega Luigi e la guardia Carta Giuseppe ottennero il sequestro di chilogrammi 70 di zuccherocon l'arresto di un contrabbandiere e furono premiati con lire 30 per la pima operazione e con lire 20 per la seconda[74]. Nello stesso anno il comandante della Regia Guardia di Finanza del Circolo di Salò ispezionò la sede di Gargnano, il Casello di Gargnano e la sezione di Hano.

Donato Fossati (1870-1949), il nipote, raccolse la testimonianza di Giacomo Zucchetti detto "Astrologo" di Gaino, un ex milite sessantenne della Regia Guardia di Finanza, pure soprannominato per la sua appartenenza al Corpo, "Spadì", in servizio nella zona di confine tra il finire dell'Ottocento e l'inizio del Novecento[75], il quale affermava che "i contrabbandieri due volte la settimana in poche ore, sorpassata la montagna di Vesta allora linea di confine coll'Austria e calati a Bollone, ritornavano carichi di tabacco, di zucchero e specialmente di alcool, che rivendevano ai produttori d'acqua di cedro specialmente" della Riviera di Salò.[76]. Al contrario per importare merci di contrabbando dal basso lago di Garda, i contrabbandieri di Val Vestino si avvalevano dell'approdo isolato della "Casa degli Spiriti" a Toscolano Maderno. Qui sbarcate le merci e caricatele a basto di mulo, salivano per il ripido sentiero di Cecina inoltrandosi furtivamente oltre la linea doganale eludendo così la vigilanza della Regia Guardia di Finanza. Noto è pure il caso a fine secolo, del brigadiere del Casello di Gargnano che recandosi, senza armi e in abiti civili, a Bollone per compiere le indagini sul traffico illecito di confine, creò un caso diplomatico tra i due Paesi[77].

Nel 1903 una forte scossa di terremoto fu avvertita al Casello di Gargnano passata la mezzanotte del 30 al 31 maggio producendo dei danni lievi alla struttura senza pregiudicarne l'operatività mentre riferirono i militari che passò inosservata la scossa principale delle 8 e trenta del 29 maggio[78].

1862. La caccia ai soldati disertori napoletani e ai loro complici contrabbandieri

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Un episodio accaduto nell'inverno del 1862 sulle sponde del lago di Garda riguardante la caccia a dei disertori napoletani, si inserisce nel contesto nazionale del diffuso fenomeno della diserzione di giovani meridionali chiamati al servizio militare obbligatorio nel nord Italia, che si manifestò come risposta politica di dissenso al nuovo governo del Regno, ritenuto colpevole di una condotta autoritaria e repressiva nel meridione[79][80].

Difatti il 9 gennaio del 1862 la notizia diffusa della diserzione di alcuni soldati di origine napoletana di stanza in un reparto del Regio esercito a Salò, ex appartenenti alla disciolta armata borbonica, mise in allarme l'apparato di polizia della Guardia Nazionale innescando la caccia ai fuggitivi e ai loro complici, due contrabbandieri di Valle, lungo la linea di confine nella valle del torrente Toscolano. La notizia dell'evento fu pubblicata da il giornale "Il Faro" di Livorno in un articolo dell'11 gennaio: "Gargnano, 11 Gennaio. Scrivono al medesimo giornale: La sera del 9 corrente disertavano dal distaccamento di Salò dieci soldati napoletani, e quella R. Intendenza ne trasmetteva tosto l'avviso nell'istessa sera a mezzo di un Carabiniere a cavallo alle nostre autorità. Non sappiamo per qual motivo, solo questa mattina circa alle 7 1/2 venisse comunicato il fatto alla nostra Guardia Nazionale, sebbene tre pattuglie dirette dal luogotenente sig. Chignola si portassero tosto a perlustrare i monti e strade del confine onde precludere ed arrestare i fuggenti, ebbero la malaugurata delusione di sapere che poco prima i detti disertori avevano varcato il confine diretti da certo Salvadori Antonio di Bollone soddito austriaco, che da una di esse veniva arrestato come cooperatore alla fuga in unione di certo Mazza di Magasa pure suddito austriaco. È noto che i disertori si fermarono a Camerate su quel di Toscolano ove vi è lo stabilimento di manifatture del sig. Visentini, e in quella stessa località è par noto che si fermarono altri disertori. Nel mentre la Guardia Nazionale si merita i dovuti encomi dimostrando come sia compresa dalla nobile missione e pronta in ogni incontro a tutelare l'ordine e reprimere ogni misfatto, avessino bramato che anche la Guardia Nazionale di Toscolano e Maderno avessero cooperato a tale arresto"[81].

In quell'anno si registrarono nel nord Italia, tra l'altro a Monza, Cremona, Casalmaggiore, Lucca, Santa Maria sul confine svizzero, numerose diserzioni, ma anche atti di sedizione e insubordinazione, per motivi politici, di soldati di origine napoletana arruolati nell'Regio esercito, consistenti in ex appartenenti all'esercito borbonico, sconfitto nel 1860 da Giuseppe Garibaldi. I giornali di Milano, di quell'anno, accennavano verso la fine di aprile, alla scoperta di un grave complotto militare reazionario tra i soldati napoletani accasermati negli ospedali di Sant'Ambrogio, e del Monastero maggiore che armati di coltelli e pistole erano pronti a scatenare la rivolta[82]. Tra i disertori vi era la convinzione che oltrepassato il confine di stato con l'Austria vi era la possibilità di raggiungere il porto di Trieste, imbarcarsi per il sud Italia e affiliarsi al brigantaggio continuando la lotta contro i Piemontesi[83]. La fuga per i più, si dimostrò di breve durata e arrestati in Trentino, costoro venivano reclusi nella fortezza di Verona e riconsegnati alle autorità militari italiane[84].

Una repubblica dimenticata fra Austria e Italia

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Nell'aprile del 1909 il Bollettino italiano di Legislazione e Statistica Doganale e Commerciale riportò un aspetto politico della Val Vestino al punto che fece eco in Europa ma soprattutto in Spagna ove fu prontamente ripreso dal Boletin de la R. Sociedad Geografica de Madrid, Revista de Geografia colonial y mercantil del Maggio-Giugno del 1909. Esso descriveva che: "nel Trentino sud-occidentale vi era una piccola valle verdeggiante e fertile quasi completamente isolata dal mondo da picchi di 2000 m. di altezza. È essa la valle di Vestino nel massiccio montuoso che distaccano i monti Tombea e Caplone. La frontiera austro-italiana segue la cresta di queste montagne di rocce dolomitiche, non lontano del lago di Garda, che separano dal lago d'Idro".

Questa frontiera forma un angolo acuto che penetra verso il sud nel territorio italiano, girando la citata valle percorsa da un torrente, il Magasino, che getta le sue acque nel lago di Garda, dopo passato per una stretta gola che è l'unica porta di comunicazione col mondo.

Questa valle costituisce in realtà una repubblica, un piccolo Stato, che non è stato riconosciuto dai suoi potenti vicini né incluso nelle carte dell'Austria o dell'Italia quando, dopo laboriosi negoziati, furono tracciate le carte delle frontiere.

In questo piccolo Stato non havvi governatore, né amministrazione di nessuna specie. Tre volte la settimana vi arriva la posta proveniente dall'Italia. I giovani prestano servizio militare in Austria, però gli abitanti non pagano ad essa contribuzione alcuna: viceversa sono italiani di lingua, di razza e di idee. La caratteristica che contraddistingue questa repubblica è il regime speciale che ricorda quello della chiesa romana"[85][86].

Il collegamento con Storo e la Valle del Chiese

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Fra il 1897 e il 1898 il governo austriaco, la provincia di Trento e i Comuni valvestinesi diedero il via ai lavori di rifacimento della mulattiera che dal casello di confine con il Regno d'Italia della Patòala, lungo il torrente Toscolano, univa i sei paese con otto ponti di cui sei in pietra, proseguendo da Turano, passando per Persone e Bocca Valle fino a Baitoni di Bondone sul lago d'Idro[87].

Ma è agli inizi 1900 che I Comuni si impegnarono per migliorare definitivamente il loro collegamento con Storo poiché risultava che la Valle: "...è come tagliata fuori dal rimanente della Provincia di Trento, ed oggi per accedervi, evitando sentieri da capre, dalla Valle del Chiese conviene toccare il suolo del finitimo Regno [d'Italia]. Negli ultimi tempi, a quanto informarono quei Comuni, ebbero luogo trattative per una strada che li congiungesse con Storo e sarebbero anche loro stati in prospettiva dei contributi della Provincia e dello Stato [Austria]. L'importanza della strada è manifesta. I Comuni rinserrati in questa Valle alpestre sono Armo, Bollone, Magasa, Persone e Turano con 1.433 abitanti (1.000 capi di bestiame), impossibilitati gran parte dell'anno ad accedere al loro centro politico, privi di congiunzione, lontani da ogni consorzio, di maniera che essi non valgono i dazi e le monete che vigono in Austria. A questi Comuni dovrebbe aggiungersi quale interessato alla strada anche Bondone con 762 abitanti e Storo, ove farebbe capo, con 1.724 abitanti. La strada dovrebbe partire da Storo (409 m) e con un percorso di kil. 5.600 spingersi fino a Baitoni (m. 400) mettendosi, poco su poco giù, a livello. Da Baitoni, toccato Bondone, andrebbe in kil. 10 di sviluppo a puntare alla Bocca di Valle (1392 m. vincendo uno slivello di 992 m.) con una pendenza media del 10%. Dal valico Bocca di Valle fino a Magasa (972 m) la distanza è di kil. 4 e mezzo con una pendenza media del 9.33%. Il Comune di Magasa però osserva che più opportuna ed adattata sarebbe la comunicazione per la strada di Valle [per il Garda]."[88].

La strada carrozzabile non sarà mai costruita, rimarrà sempre una mulattiera, e nel 1908 si presentava così mal manutenuta che Cesare Battisti, in visita alla Valle, percorrendola a piedi, la definì nella sua "Guida alle Giudicarie": "assai disagevole".

I patrioti Cesare Battisti e Tullio Marchetti

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Cesare Battisti, spinto dai suoi studi geografici e sociologici ma probabile anche per fini spionistici a sostegno dell'Italia[89], visitò la Val Vestino nel 1908. Da Bondone sali la mulattiera fino a Bocca di Valle per poi scendere a Persone, Turano e Moerna. Nella sua «Guida delle Giudicarie» del 1909, dopo aver raccolto informazioni tra gli anziani del posto, scrive tra l'altro: «Valvestino è una Valle che fa parte del Trentino e, quindi, dell’Austria. Allorché, nel 1860, si venne alla delimitazione dei confini fra Austria e Italia, la prima lasciò ai paesi della Valvestino il diritto d’opzione; ed essi dichiararono fedeltà al governo austriaco». Battisti definì tra l'altro la posizione di Armo la migliore della Valle e contribuì ulteriormente allo studio sociologico sulla Val Vestino con uno scritto sull'attività tipica dei carbonari e la loro migrazione temporanea in Alta Italia e in Europa edita da «Il Popolo» a Trento nell'aprile del 1913[90].

La zona, come tutto il Trentino sud occidentale, suscitò in quegli anni una notevole e particolare curiosità investigativa da parte delle autorità militari italiane e, così nel 1911, fu nuovamente percorsa e scrutata, sotto le mentite vesti di un alpinista per ovviare alla naturale diffidenza dei locali agli estranei o a quella della gendarmeria, dall'ufficiale degli alpini e agente del servizio segreto, Tullio Marchetti, trentino di Bolbeno. Difatti ai vertici dell'esercito, il generale Tancredi Saletta capo di Stato maggiore del Regio esercito, non mancò di rispolverare il vecchio piano del generale Enrico Cosenz, secondo cui, in caso di conflitto con l'Austria-Ungheria, occorreva agire aggressivamente sul saliente delle valli di Sole, di Non e Val Vestino, occupandole prima di attaccare a oriente, sull'Isonzo. Per fare ciò bisognava compiere le necessarie rilevazioni topografiche, tattiche e logistiche, e Marchetti prima di agire personalmente sul terreno si coordinò con altri ufficiali terminali di reti nella regione, come il trentino Aristide Manfrin e il capitano dei carabinieri Giacinto Santucci responsabile di una rete di informatori operanti in Trentino[91]. Con l'intento di documentarsi sulla morfologia dei luoghi, Marchetti tracciò lo sviluppo delle strade di comunicazioni tra la riviera gardesana e le Giudicarie, la logistica, la tattica e attivare una possibile rete informativa lungo la linea di operazioni in vista di un probabile conflitto con l'Austria. Così predispose negli anni una serie di monografie a carattere geografico-militare, su varie aree montuose e sulle linee delle possibili operazioni militari anche la Val di Sole, di Non, le Giudicarie e il basso Sarca con schizzi annessi, che vennero trasmesse al Comando del Corpo di Stato Maggiore di Roma. In uno scritto privato degli anni '50 del secolo scorso definì ironicamente Magasa "una metropoli" vista la sua esigua popolazione.

Sulla base di queste informative, nei mesi precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale del 1915, lo Stato maggiore del Regio esercito in due riunioni tenute a Verona e a Brescia confermò l'intenzione di "eliminare il saliente della Val Vestino" dalla presenza di truppe austriache. Difatti con l'inizio del conflitto, il 25 maggio, Moerna fu prontamente occupata dalla fanteria del Regio Esercito italiano proveniente dal monte Manos e da Capovalle. Al seguito della truppa vi era il noto scrittore Mario Mariani, corrispondente di guerra del quotidiano Il Secolo che scriveva: "Quando il sole era già alto la batteria raggiungeva la frontiera. I pali austriaci erano già stati rovesciati. Un bersagliere ciclista che tornava d'oltre confine gridava passando e pedalando a rotta di collo per salite ripide e voltate al ginocchio: "Il mio plotone è a Moerna, gli austriaci scappano". La colonna rispondeva: "Viva l'Italia!"[92]. Nel luglio 1917 vi transitò, proveniente da Capovalle, anche il re Vittorio Emanuele III in ispezione alle linee fortificate della Val Vestino.

I primi giorni della Grande Guerra. L'avanzata dei bersaglieri italiani

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Cima Gusaur e Cima Manga in Val Vestino facevano parte fin dall'inizio della Grande Guerra dell'Impero austro-ungarico e furono conquistate dai bersaglieri italiani del 7º Reggimento nel primo giorno del conflitto, il 24 maggio 1915, sotto la pioggia. In vista dell’entrata in guerra del Regno di Italia contro l’Impero austro-ungarico, il Reggimento fu mobilitato sull’Alto Garda occidentale, inquadrato nella 6ª Divisione di fanteria del III Corpo d’Armata ed era composto dai Battaglioni 8°, 10° e 11° bis con l'ordine di raggiungere in territorio ostile la prima linea Cima Gusaner (Cima Gusaur)-Cadria e poi quella Bocca di Cablone-Cima Tombea-Monte Caplone a nord.

Il 20 maggio i tre Battaglioni del Reggimento raggiunsero Liano e Costa di Gargnano, Gardola a Tignale e Passo Puria a Tremosine in attesa dell’ordine di avanzata verso la Val Vestino. Il 24 maggio i bersaglieri avanzarono da Droane verso Bocca alla Croce sul monte Camiolo, Cima Gusaur e l'abitato di Cadria, disponendosi sulla linea che da monte Puria va a Dosso da Crus passando per Monte Caplone, Bocca alla Croce e Cima Gusaur. Lo stesso 24 maggio, da Cadria, il comandante, il colonnello Gianni Metello[93], segnalò al Comando del Sottosettore delle Giudicarie che non si trovavano traccia, né si sapeva, di lavori realizzati in Valle dal nemico, le cui truppe si erano ritirate su posizioni tattiche al di là di Val di Ledro. Evidenziava che nella zona, priva di risorse, con soltanto vecchi, donne e fanciulli, si soffriva la fame. Il giorno seguente raggiunsero il monte Caplone ed il monte Tombea senza incontrare resistenza[94]. Lorenzo Gigli, giornalista, inviato speciale al seguito dell'avanzata del regio esercito italiano scrisse: "L'avanzata si è svolta assai pacificamente sulla strada delle Giudicarie; e uguale esito ebbe l'occupazione della zona tra il Garda e il lago d'Idro (valle di Vestino) dove furono conquistati senza combattere i paesi di Moerna, Magasa, Turano e Bolone. Le popolazioni hanno accolto assai festosamente i liberatori; i vecchi, le donne e i bambini (chè uomini validi non se ne trova no più) sono usciti incontro con grande gioia: I soldati italiani! Gli austriaci, prima di andarsene, li avevano descritti come orde desiderose di vendetta. Ed ecco, invece, se ne venivano senza sparare un colpo di fucile...A Magasa un piccolo Comune della valle di Vestino i nostri entrarono senza resistenza. Trovarono però tutte le case chiuse. L'unica persona del paese che si poté vedere fu una vecchia. Le chiesero: "Sei contenta che siano venuti gli italiani?". La vecchia esitò e poi rispose con voce velata dalla paura: "E se quelli tornassero?". «Quelli», naturalmente, sono gli austriaci. Non torneranno più. Ma hanno lasciato in questi disgraziati superstiti un tale ricordo, che non osano ancora credere possibile la liberazione e si trattengono dall'esprimere apertamente la loro gioia pel timore di possibili rappresaglie. L'opera del clero trentino ha contribuito a creare e ad accrescere questo smisurato timore. Salvo rare eccezioni (nobilissima quella del principe vescovo di Trento, imprigionato dagli austriaci), i preti trentini sono i più saldi propagandisti dell'Austria. Un ufficiale mi diceva: "Appena entriamo in un paese conquistato, la prima persona che catturiamo è il prete. Ne vennero finora presi molti. È una specie di misura preventiva..."[95]. Il 27 maggio occuparono più a nord Cima spessa e Dosso dell’Orso, da dove potevano controllare la Val d’Ampola, e il 2 giugno Costone Santa Croce, Casetta Zecchini sul monte Calva, monte Tremalzo e Bocchetta di Val Marza. Il 15 giugno si disposero tra Santa Croce, Casetta Zecchini, Corno Marogna e Passo Gattum; il 1º luglio tra Malga Tremalzo, Corno Marogna, Bocchetta di Val Marza, Corno spesso, Malga Alta Val Schinchea e Costone Santa Croce. Il 22 ottobre il 10º Battaglione entrò in Bezzecca, Pieve di Ledro e Locca, mentre l’11° bis si dispose sul monte Tremalzo. Nel 1916 furono gli ultimi giorni di presenza dei bersaglieri sul fronte della Val di Ledro: tra il 7 e il 9 novembre i battaglioni arretrarono a Storo e di là a Vobarno per proseguire poi in treno verso Cervignano del Friuli e le nuove destinazioni.

Gli antifascisti

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La consultazione dell'Archivio online del "Novecento trentino" promosso dalla "Fondazione Museo storico del Trentino" precisamente il database "Gli oppositori al fascismo" svela che nel Fascicolo conservato presso Casellario Politico Provinciale dell'Archivio di Stato di Trento sono contenuti i nomi degli antifascisti della Valle: Santo Zeni detto Catòla di Bortolo, di Magasa, classe 1911, di professione contadino, nel 24 marzo del 1929 fu schedato come antifascista per aver imbrattato i manifesti del listone fascista e quello dell'immagine di Benito Mussolini con sterco di animale in concorso con Mario Venturini Gàmbal; arrestati e tradotti alle carceri della pretura di Condino, Venturini fu rilasciato in quanto minorenne, Zeni altresì fu schedato e radiato solo nel 1933, morì nel 1978. Giovanni Grandi di Domenico nato a Persone nel 1895, di professione fabbro, politicamente socialista, fu diffidato nel 1930 e radiato nel 1933.

Avverso al fascismo, fin dal suo manifestarsi, Bortolo Zeni Breghèla detto Matèl (1902-1983), boscaiolo, di idee socialiste, nel 1921 a Vobarno fu aggredito dalle camicie nere, picchiato e costretto a bere l'olio cotto dell'automobile[96].

Altro antifascista fu Giuseppe Monti nacque a Valvestino il 27 agosto del 1922 ma il nominativo non compare negli archivi anagrafici del suddetto Comune o Parrocchiali, sconosciuto è altresì il luogo e la data del decesso, così pure la famiglia d’origine sembra non valvestinese e non avere discendenze in Valle. Monti figura fra i 400 deportati politici e razziali bresciani nei campi di concentramento i sterminio in Germania nella seconda guerra mondiale. La deportazione politica, diversa da quella razziale, rappresentava un esempio sia di repressione delle opposizioni al nazifascismo (comprendeva militari che erano rimasti fedeli al giuramento al Re d’Italia e non avevano quindi aderito all’esercito della Repubblica Sociale Italiana, partigiani, componenti locali del Comitato di Liberazione Nazionale, o antifascisti già schedati nel Casellario Politico Centrale), ma soprattutto un prelievo di manodopera per la produzione bellica nazista. Infatti un numero consistente era costituito da operai delle fabbriche italiane decimate da arresti individuali, retate e rastrellamenti.

Fu arrestato in circostanze e in data non acclarate, è deportato a Flossenbürg (numero di matricola 43648) il 23 gennaio 1945 col trasporto n. 118, partito dal campo di raccolta-smistamento di Bolzano-Gries il 19. Classificato come Politisch (Pol-deportato politico), "Italianer Schutzhäftlinge" (deportato per motivi di sicurezza), Monti fu contrassegnato da un triangolo rosso di stoffa sull’uniforme a righe, come oppositore politico del nazismo e preso in custodia dalle Schutzstaffeln-SS. Il 3 febbraio 1945 fu trasferito nel sottocampo di Porschdorf, e il 20 marzo in quello di Leitmeritz. A Porschdorf vi furono rinchiusi 250 prigionieri, tra cui 179 italiani (dei quali 11 morirono), 22 russi, 11 belgi e altrettanti polacchi, 10 tedeschi e altri di quattro diverse nazionalità. Qui vennero impiegati dalla Organizzazione Todt (OT) nella costruzione di un impianto per la produzione di carburante per aerei che non fu però portato a termine. Il campo fu liberato l’8 maggio dall’Armata rossa. Nel campo di Leitmeritz i deportati, per un complessivo di 18 mila persone circa, furono impegnati prevalentemente nel lavoro forzato di allargamento della rete di gallerie da dove si estraeva il calcare, per allestirvi fabbriche sotterranee per la produzione di motori per carri armati, nell’ambito del progetto Richard I e II dove erano coinvolte ditte come la Auto Union e la OSRAM. Altri prigionieri lavorarono alla realizzazione di strade, di raccordi ferroviari, di depositi e uffici. Il numero delle vittime stimate è di circa 4.300 internati. Il lager venne liberato l’8 maggio 1945. I nomi dei deportati che sono deceduti nel campo di concentramento di Flossenbürg e nei suoi campi satellite in Baviera, Boemia e Sassonia sono contenuti nel "Libro dei Morti". I nomi dei deportati deceduti dopo il trasferimento in altri campi non compaiono nel libro dei morti di Flossenbürg ma risultano dalle certificazioni conservate presso l'International Tracing System di Bad Arolsen[97][98][99].

1944-1945. La “Linea blu” di difesa nazista

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L'organizzazione Todt, creata da Fritz Todt, ministro degli Armamenti e degli Approvvigionamenti del Terzo Reich, è stata un'impresa di costruzioni che operò dapprima nella Germania nazista, e successivamente, in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht. Il ruolo principale dell'impresa fu la costruzione di strade, ponti e altre opere fondamentali per le armate tedesche, come la fabbricazione di linee difensive tedesche in Italia: la Linea Gustav, la Linea Gotica e, appunto, la Linea Blu, o “Blaue Linie”, “Blaue II” o “Linea Alpina” che dall'intersezione del confine svizzero-austriaco scendeva per circa 400 chilometri a sud est verso il bresciano, il lago d'Idro, salendo poi a nord del lago di Garda in Trentino e della provincia di Belluno seguitando fino a Monfalcone e Fiume e sfruttava ove era possibile i manufatti della Grande Guerra. L'organizzazione operò in stretta sinergia con gli alti comandi militari durante tutta la seconda guerra mondiale, arrivando ad impiegare al lavoro coatto ma anche volontario, remunerato, di più di 1 500 000 uomini e ragazzi, di cui 170 000 in Italia, 11 000 nel solo bresciano e i lavoratori adulti erano esentati dal prestare servizio militare obbligatorio nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana, evitando altresì la deportazione nei campi di lavoro in Germania. Dal luglio del 1944, su ordine di Adolf Hitler, che emanò la direttiva numero 60, e sotto la giurisdizione nel settore ovest di Franz Hofer, gauleiter dell'Alpenvorland (che comprendeva le ex province italiane di Belluno, Bolzano e Trento), iniziarono i cantieri dei lavori della cosiddetta “Linea blu”, la linea che avrebbe dovuto garantire il blocco dell'avanzata degli angloamericani verso il nord. Nella bassa Vallecamonica e nella zona del lago di Garda e d'Idro doveva sbarrare la strada verso il Trentino ed il Cantone dei Grigioni in Svizzera. Nell'alto Garda Bresciano e nella Valle Sabbia furono costruite opere per appostamenti difensivi di artiglieria, camminamenti e ricoveri ipogei sul monte Manos, sul monte Carzen, sul monte Stino, nell'ex comune di Moerna e sulle alture della sponda orientale del lago d'Idro impiegando operai locali e della Val Vestino, più a sud i lavori interessarono il monte Pizzocolo e il monte Castello di Gaino, capo Reamòl a Limone sul Garda e la riviera del Garda da Gargnano a Gardone Riviera con la costruzione di bunker a servizio dei vari ministeri della RSI. Nell'aprile del 1945 l'opera poteva definirsi completa ma non fu mai presidiata o armata e tantomeno impiegata dall'esercito tedesco a causa del crollo del fronte italiano e alla successiva fine del conflitto.

Marzo 1945, l'ultimo duello aereo nei cieli del lago di Garda, la caduta dell'asso

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Mancava solo un mese alla fine del secondo conflitto mondiale e il primo combattimento sul caccia di importazione tedesca Messerschmitt Bf 109 G.10 della Repubblica Sociale Italiana ebbe luogo nella tarda mattina di mercoledì 14 marzo 1945. Il maggiore Adriano Visconti, asso dell'aviazione italiana accreditato nel dopoguerra di 10 vittorie aeree accertate in 600 missioni operative, comandante del 1º Gruppo caccia "Asso di bastoni", alle ore 11, su allarme del Comando Tattico di Verona, decollò con altri 16 Messerschmitt dall'aeroporto Campo della Promessa di Lonate Pozzolo, in direzione del Lago d'Idro. Qui alle ore 11.15, intercettò a 6.000 metri di quota, sulla verticale del lago di Garda, nella zona compresa tra Cadria, Cima Mughera e monte Puria, una formazione di B-25 Mitchell del 321th Bomber Group, che rientrava a Pisa dopo il bombardamento del ponte ferroviario di Vipiteno. Gli otto P-47 Thunderbolt di scorta del 350th Fighter Group attaccarono a loro volta i Messerschmitt italiani. Nel corso del breve combattimento alle 11.30 a San Vigilio di Concesio un Messerschmitt Bf 109 G.10, colpito al motore, tentò un atterraggio di fortuna su un prato e quando tutto sembrò andare per il meglio, tanto che il pilota aprì il tettuccio, negli ultimi metri l’aereo urtò contro un muretto, le lamiere del Bf 109 spezzarono il volto uccidendo il sergente maggiore Giuseppe Chiussi. Un altro Messerschmitt pilotato dal sergente Domenico Balduzzo cadde nel cielo del lago d'Idro schiantandosi in località Naveze a Pieve d'Idro, il paracadute non funzionò ed il pilota Balduzzo trovò istantanea morte fra le rocce. La carcassa dell'aereo fu in parte «cannibalizzata» nei giorni seguenti dalla popolazione locale e poi recuperata in parte dall'autorità militare. Adriano Visconti attaccò frontalmente il Thunderbolt del 1/Lt. Charles Clarke Eddy, rivendicandone l'abbattimento, ma lo stesso comandante del 1º Gruppo fu colpito e ferito al volto dalle schegge del proprio parabrezza e costretto a lanciarsi con il paracadute che atterrando si impigliò su dei rami di un pino sito nei pressi del piccolo cimitero di Costa di Gargnano. Recuperato da una pattuglia motorizzata tedesca fu portato all'ospedale militare di Gardone Riviera per ricevere le prime cure mediche. Il bilancio della giornata fu drammaticamente negativo: tre piloti italiani morti e uno ferito, tre aerei abbattuti e sei danneggiati, a fronte di un solo P-47 dell'United States Air Force danneggiato. Lo stesso Benito Mussolini accompagnato da ufficiali tedeschi, dal terrazzo di Villa Feltrinelli a Gargnano, assistette al frastuono causato in cielo dagli aerei, dai colpi di cannone e mitragliatrici e dal rombo dei motori; il duello in quota era visibile sulla sponda occidentale del lago in quanto avveniva a circa 2.000 metri di quota[100]. Il 15 marzo l'ANR attribuì a Visconti la vittoria e la segreteria inoltrò la pratica per richiedere il "Premio del Duce", le 5.000 lire che spettavano all'abbattitore di un monomotore. In realtà il P-47 Thunderbolt dell'americano Eddy rientrò alla base di Pisa con il velivolo danneggiato ed era di nuovo operativo il 2 aprile successivo in un'altra missione.[101] Il Messerschmitt Bf 109 di Visconti "cadde oltre la Costa"[102] a sei chilometri di distanza sulle montagne della Valle del Droanello, tra il territorio di Valvestino e quello del comune di Tignale, in provincia di Brescia dando origine ad un incendio boschivo. Testimoni affermarono che parte dell'aereo si schiantò, probabilmente nelle zone interne della Val Vestino a Magasa dove precipitò un serbatoio supplementare, non identificato, in località Rì o Capovalle così come il frammento di un'elica americana Aeroprop e il serbatoio supplementare di un P-47 Thunderbolt oggi conservati nel Museo dei reperti bellici di Capovalle mentre i resti più consistenti dell’aereo rinvenuto sui monti di Tignale furono smontati nei mesi successivi e ciò che poteva essere recuperato fu trattenuto da coloro che avevano assistito all’accaduto[102]. Una piccola parte di metallo del velivolo riconducibili a un serbatoio, a quelli di un trasmettitore radio, grosse porzioni di alluminio avio con scritte che non lasciano adito a dubbi, saranno ritrovati sulle montagne di Tignale a Cima Carbonere e identificati nel 2019 dagli esperti dell’associazione Air Crash Po e Romagna Air finders.[103]

Simboli

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Lo stemma e il gonfalone comunale sono stati concessi con decreto del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in data 28 settembre 2007[104][105].

«Stemma partito: il primo, di azzurro, alla torre campanaria di argento, murata di nero, coperta di rosso, con grande apertura ad arco sotto il tetto, di nero, essa torre fondata in punta; il secondo, di rosso, al leone d'oro, allumato e linguato di rosso, con la coda intrecciata a nodo d'amore; il tutto sotto il capo di verde, caricato da cinque stelle di otto raggi, d'oro. Sotto lo scudo, su lista bifida e svolazzante di azzurro, il motto, in lettere maiuscole di nero, ALEXANDRO TERTIO PONTIFICI GRATIAS AGIMUS. Ornamenti esteriori da Comune.»

Nella prima partizione è raffigurata la torre campanaria della Pieve di San Giovanni Battista a Turano, nella seconda il leone rampante simbolo araldico dei conti Lodron feudatari della Val Vestino per circa otto secoli.

Il gonfalone è un drappo di giallo con la bordatura di azzurro.

Monumenti e luoghi di interesse

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Architetture religiose

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La chiesa di San Giovanni Battista

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Chiesa di San Giovanni Battista (Valvestino).

La chiesa di San Giovanni Battista è situata a Turano. Le prime notizie risalgono al 15 novembre 928 e sono contenute nel famoso testamento del vescovo veronese Nokterio, ove viene citata come la chiesa di Santa Maria. Filiale della chiesa di Tignale divenne pure rettoria e parrocchia. Fu chiamata dai locali Pieve ma mai ricoprì tale attribuzione. Conserva un dipinto raffigurante la decollazione di San Giovanni Battista opera del pittore gardesano Giovanni Andrea Bertanza di Padenghe sul Garda. Sulla torre del campanile è visibile ancor oggi scolpito nella pietra lo stemma Scaligero, ossia una scala a cinque pioli in palo. Al riguardo un anonimo di Bagolino lasciò scritto che la Valle fu concessa in feudo ai conti di Lodrone in permuta del feudo di Bagolino il 6 aprile 1452, e allorquando nel 1579 i Commissari dell'Arciduca d'Austria pretesero il giuramento di fedeltà dai Valvestinesi, questi si rifiutarono perché il loro feudo non faceva parte del principato di Trento[106]. Tale notizia è priva di veridicità storica e fu smentita da Bartolomeo Corsetti, presbitero benacense, storico e latinista, nel suo scritto Memorie dell'antica Casa di Lodrone edito nel 1693.

Vi si celebra la festa del santo patrono della Valle il 29 agosto, la festività di Nostra Signora della Neve il 5 agosto alla quale era anticamente consacrata e l'ultima domenica di agosto la "Festa del Perdono" che secondo la tradizione locale fu istituita da papa Alessandro III nel 1166 che transitò nella zona.

Il prato antistante l'entrata della Chiesa anticamente era chiamato "Prato della Pica"[107] in quanto venivano lette o sentenziate le condanne capitali emanate dai conti di Lodrone, feudatari della Valle[108].

Tra la fine del Cinquecento e primi anni del Seicento la Pieve fu retta da sacerdoti dalla condotta discutibile: don Lorenzo Bartelli nel giugno 1600 inviava una supplica a papa Clemente VIII per essere assolto dalla colpa dell'omicidio del cognato Stefano Zuaboni commesso nel 1592 per difendere la sorella angustiata dalle continue angherie domestiche[109], mentre don Giovanni Antonio Marzadri, rivale della banda di Giovanni Beatrice, fu giustiziato a Salò nel 1609 per ordine della magistratura della Serenissima in quanto ritenuto colpevole di omicidi e nefandezze varie.

Aree naturali

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Il Monte Stino

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Monte Stino.

Con la sua imponenza, il Monte Stino, sovrasta l'abitato di Moerna. È un sito botanico di grande importanza e fu erbotrizzato dai più grandi botanici europeì. Nei secoli passati, data la sua posizione strategica di frontiera tra l'impero d'Austria e il regno d'Italia, assunse un ruolo importante nel controllo dei passaggi tra il Trentino e la Valle Sabbia o il Lago di Garda.

Cùel Zanzanù

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Cùel Zanzanù.

Il Cùel Zanzanù situato in località Martelletto nella parte meridionale della Valle del Droanello, fu un noto rifugio di briganti del '600.

La presenza dell'orso bruno

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Nei secoli passati la presenza in Val Vestino del plantigrado è stata sempre costante, interdetta solamente negli ultimi decenni del secolo scorso a causa del ridimensionamento numerico della specie in Trentino a soli quattro esemplari maschi relegati in Val di Genova che ne causò la quasi scomparsa. Il ritorno dell'orso bruno nel Trentino e nel Bresciano è legato al Progetto europeo "Life Ursus" attuato dalla confinante regione Trentino tra il 1999 ed il 2002, finalizzato alla ricostituzione di una popolazione stabile di orso nelle Alpi centrali. Il fenomeno di espansione territoriale nel bresciano, riporta la Provincia di Brescia, al 2023 riguarda soprattutto giovani maschi in dispersione mentre le femmine, pur ampliando il proprio areale di presenza, sono ancora relegate al territorio di nascita trentino[110]. I primi avvistamenti risalgono al mese di settembre 2000, Daniza (F43), una delle prime femmine di orso sloveno rilasciate, visita il Parco Alto Garda Bresciano e la Valle Sabbia facendosi osservare nei pressi della fermata degli autobus di Armo in Valvestino e nei giorni successivi nella valle dell’Agna (Capovalle e Vobarno) per poi ritornare sui suoi passi transitando nei pressi della località Cima Rest non prima di aver razziato un apiario nel comune di Magasa in località Vanécle e un altro a Cadria. Nel 2005 un giovane orso, detto JJ2, torna a frequentare la zona dell’Alto Garda a Magasa, Tignale e Tremosine da fine aprile a fine maggio. Diverse segnalazioni nel corso del 2010 sono attribuite all'erratismo di M6 (DJ3G1), giovane maschio nato nel 2007, nelle zona l’Alto Garda compresa tra Capovalle, Tremosine, Gargnano, Magasa e Vobarno[111]. Infine nel luglio 2017 un indice di presenza è confermato nei pressi dell'abitato di Bollone, nel settembre 2017 al Ponte di Rio Costa sul lago di Valvestino, nel dicembre 2022 sul Ponte del torrente Personcino a Turano, nel giugno 2023 nei pressi dell'abitato di Persone e nell'agosto 2024 la Polizia provinciale di Brescia ha registrato tramite fototrappole posizionate in varie zone sui monti di propria competenza la presenza di due esemplari di orsi: uno in località Messane di Valvestino ed una in località Ranina di Berzo Inferiore. Entrambi i casi l'orso stava cercando cibo ed in uno in particolare, quello di Valvestino, stava razziando miele dalle arnie nel bosco. Altri avvistamenti il 9 agosto im località Apene sul monte Camiolo a Valvestino e il 5 settembre 2024 in località Crune di Magasa.

Le prime notizie storiche riguardanti la frequentazione della specie orsina della Val Vestino risalgono alla metà del 1800, quando le cronache dell'epoca riferiscono di una colluttazione che il contadino Pietro Bertola di Magasa, residente in località Fornello, ebbe nella Valle del Droanello, con il selvatico e infatti da allora Bertola fu soprannominato "L'orso del Fornel", Pietro Daga o Pietro Orso[112]. La presenza è pure ricordata nella Valle di Campei con il toponimo "Tuf dell'Urs". L'ultimo esemplare abbattuto avvenne agli inizi del 1900, nella Val di Campo, durante la transumanza del bestiame da malga Lorina al monte Caplone ad opera di un toro di proprietà del contadino Bortolo Venturini di Magasa. Nel territorio bresciano si cita l'abbattimento di 11 esemplari nella seconda metà del 1800 nei comuni dell'Alta Val Camonica ed è di quell'epoca l'ultimo esemplare abbattuto in Valtrompia e conservato nel Museo del Parco Minerario di Pezzaze. Nel Ventesimo secolo le presenze dell'orso sul territorio sono scarse: nel 1939 un avvistamento in Alto Garda e nel 1950 a Cadria, nel 1954 verso il Passo del Tonale. L'ultimo orso abbattuto nel Bresciano risale al 1967 sulle montagne di Vestone[110].

La pratica delle carbonaie

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Sulle montagne del Comune sono presenti numerose e antiche aie carbonili simbolo di una professione ormai scomparsa da decenni. Quella della carbonaia, pojat in dialetto locale, era una tecnica molto usata in passato in gran parte del territorio alpino, subalpino e appenninico, per trasformare la legna, preferibilmente di faggio, ma anche di abete, carpino, larice, frassino, castagno, cerro, pino e pino mugo, in carbone vegetale. I valvestinesi erano considerati degli esperti carbonai, carbonèr così venivano chiamati, come risulta anche dagli scritti di Cesare Battisti[90][113]. I primi documenti relativi a questa professione risalgono al XVII secolo, quando uomini di Val Vestino richiedevano alle autorità della Serenissima i permessi sanitari per potersi recare a Firenze e a Venezia. Essi esercitarono il loro lavoro non solo in Italia ma anche nei territori dell'ex impero austro-ungarico, in special modo in Bosnia Erzegovina, e negli Stati Uniti d'America di fine Ottocento a Syracuse-Solvay[114].

Nonostante questa tecnica abbia subito piccoli cambiamenti nel corso dei secoli, la carbonaia ha sempre mantenuto una forma di montagnola conica, formata da un camino centrale e altri cunicoli di sfogo laterali, usati con lo scopo di regolare il tiraggio dell'aria. Il procedimento di produzione del carbone sfrutta una combustione imperfetta del legno, che avviene in condizioni di scarsa ossigenazione per 13 o 14 giorni[115].

Queste piccole aie, dette localmente ajal, jal o gial, erano disseminate nei boschi a distanze abbastanza regolari e collegate da fitte reti di sentieri. Dovevano trovarsi lontane da correnti d'aria ed essere costituite da un terreno sabbioso e permeabile. Molto spesso, visto il terreno scosceso dei boschi, erano sostenute da muri a secco in pietra e nei pressi il carbonaio vi costruiva una capanna di legno per riparo a sé e alla famiglia. In queste piazzole si ritrovano ancor oggi dei piccoli pezzi di legna ancora carbonizzata. Esse venivano ripulite accuratamente durante la preparazione del legname[116].

A cottura ultimata si iniziava la fase della scarbonizzazione che richiedeva 1-2 giorni di lavoro. Per prima cosa si doveva raffreddare il carbone con numerose palate di terra. Si procedeva quindi all'estrazione spegnendo con l'acqua eventuali braci rimaste accese. La qualità del carbone ottenuto variava a seconda della bravura ed esperienza del carbonaio, ma anche dal legname usato. Il carbone di ottima qualità doveva "cantare bene", cioè fare un bel rumore. Infine il carbone, quando era ben raffreddato, veniva insaccato e trasportato dai mulattieri verso la Riviera del Garda per essere venduto ai committenti. Di questo carbone si faceva uso sia domestico che industriale e la pratica cadde in disuso in Valle poco dopo la seconda guerra mondiale soppiantato dall'uso dell'energia elettrica, del gasolio e suoi derivati[117].

Il fagiolo della Val Vestino

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Il fagiolo della Val Vestino, è una varietà locale, rara, della specie Phaseolus coccineus, ossia è caratterizzato dalla presenza corrispondente degli attuali statidi fiori di colore rosso scarlatto, originaria dell'America Latina nell'area del Perù e della Colombia, e come zona di diversificazione genetica all’area messicano-guatemalteca. Qui gli indigeni locali coltivavano la specie nei campi di mais che fungevano da tutore alle liane della piante durante la loro crescita.

I frutti di queste, baccelli contenenti semi commestibili, furono importati in Europa dagli spagnoli nel XV secolo subito dopo la scoperta dell'America. La coltivazione del fagiolo si diffuse rapidamente: dapprima in Francia, poi nelle isole britanniche in seguito nei paesi del centro Europa diventando un elemento cardine della dieta popolare. Il "coccineo" nella sua varietà fu introdotto probabilmente in Valle da commercianti nel XVII secolo proveniente dalla pianura lombarda, ove già dal 1500 veniva coltivato nei campi irrigui. Difatti non vi sono testimonianze storiche della coltura di questa leguminosa in epoca anteriore al 1800: e neppure dalla lettura di alcuni documenti relativi all'occupazione francese della Valle del 1796 si trovano riferimenti fra tutti i prodotti agricoli menzionati e sequestrati alla popolazione[118]. Qui, in Valle, il particolare microclima e l'isolamento geografico ha permesso di selezionare naturalmente una varietà unica e peculiare che cresce solo nella Valle, senza mai essere stata ibridata con l'introduzione di altri tipi di fagiolo. Purtroppo la sua coltivazione sta scomparendo con il decadimento dell'agricoltura di montagna.

Il seme della leguminosa viene piantumato in aprile, dopo la festa di San Marco, appena sotto il livello del terreno in modo, come dicevano gli anziani, sentisse il "suono delle campane dell'Ave Maria", e con il supporto di tutori di legno alti circa due metri in quanto può raggiungere i quattro metri di lunghezza. Si raccoglie nel periodo della maturazione corrispondente all'essiccazione dei baccelli compreso da settembre a ottobre. La caratteristica principale di questa varietà rispetto alle tipologie simili è la colorazione dei semi, molto accesa, che varia dal rosa, nero, bianco-grigio fino al viola. La produzione è limitata in quanto la sua coltivazione è praticata esclusivamente da privati per uso domestico ma in piccole quantità e già nel secolo scorso, veniva commerciato suo mercati del Garda bresciano.

Società

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Evoluzione demografica

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Abitanti censiti[119]

Struttura della popolazione dal 2002 al 2019

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L'analisi della struttura per età di una popolazione considera tre fasce di età: giovani 0-14 anni, adulti 15-64 anni e anziani 65 anni ed oltre. In base alle diverse proporzioni fra tali fasce di età, la struttura di una popolazione viene definita di tipo progressiva, stazionaria o regressiva a seconda che la popolazione giovane sia maggiore, equivalente o minore di quella anziana.

Lo studio di tali rapporti è importante per valutare alcuni impatti sul sistema sociale, ad esempio sul sistema lavorativo o su quello sanitario.

Anno

1º gennaio

0-14 anni 15-64 anni 65+ anni Totale

residenti

Età media
2002 29 163 98 290 49,4
2003 26 160 94 280 50,3
2004 23 141 90 254 50,9
2005 24 135 90 249 50,9
2006 19 131 90 240 51,9
2007 18 128 87 233 52,6
2008 17 126 82 225 53,1
2009 15 126 80 221 53,5
2010 14 123 78 215 53,7
2011 12 118 84 214 54,8
2012 9 112 91 212 55,9
2013 7 110 91 208 57,2
2014 6 110 86 202 56,9
2015 4 106 84 194 57,4
2016 2 100 82 184 58,1
2017 2 102 82 186 58,0
2018 5 102 78 185 57,4
2019 5 99 75 179 57,3

Indicatori demografici

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Principali indici demografici calcolati sulla popolazione residente a Valvestino.

Anno Indice di

vecchiaia

Indice di

dipendenza strutturale

Indice di

ricambio della popolazione attiva

Indice di

struttura della popolazione attiva

Indice di

carico di figli per donna feconda

Indice di

natalità (x 1 000 ab.)

Indice di

mortalità (x 1 000 ab.)

1º gennaio 1º gennaio 1º gennaio 1º gennaio 1º gennaio 1 gen-31 dic 1 gen-31 dic
2002 337,9 77,9 181,8 123,3 16,0 0,0 10,5
2003 361,5 75,0 200,0 135,3 14,0 0,0 41,2
2004 391,3 80,1 145,5 143,1 11,4 4,0 19,9
2005 375,0 84,4 166,7 159,6 11,4 0,0 8,2
2006 473,7 83,2 130,8 156,9 4,7 0,0 -
2007 483,3 82,0 255,6 166,7 2,6 0,0 17,5
2008 482,4 78,6 328,6 173,9 2,9 0,0 22,4
2009 533,3 75,4 300,0 173,9 2,8 4,6 22,9
2010 557,1 74,8 230,0 167,4 2,7 0,0 -
2011 700,0 81,4 222,2 151,1 2,7 0,0 4,7
2012 1 011,1 89,3 160,0 160,5 2,8 0,0 9,5
2013 1 300,0 89,1 150,0 168,3 0,0 0,0 48,8
2014 1 433,3 83,6 166,7 189,5 0,0 0,0 35,4
2015 2 100,0 83,0 155,6 186,5 0,0 5,3 37,0
2016 4 100,0 84,0 162,5 177,8 0,0 0,0 32,4
2017 4 100,0 82,4 233,3 175,7 0,0 16,2 -
2018 1 560,0 81,4 380,0 183,3 10,3 0,0 27,5
2019 1 500,0 80,8 500,0 175,0 10,7 - -

Amministrazione

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Fino al 1934 esso faceva parte del Trentino e, quindi, dell'Impero austro-ungarico fino al 1918. A memoria di ciò rimane il curioso fatto che Valvestino, assieme al Comune di Magasa, pur essendo in provincia di Brescia, è sottoposto al catasto (e al collegato sistema tavolare) vigente in Trentino e alla competenza giudiziaria del Tribunale di Rovereto. Il Comune di Valvestino fu creato nel 1931 dalla soppressione di quello di Turano e con l'unione degli antichi ex municipi di Armo, Bollone, Moerna, Magasa e Persone. Magasa nel 1947 si separò, tornando ad essere comune autonomo. La città di Roma ha dedicato una strada al comune di Valvestino, che si trova nella frazione di Palmarola, regione Municipio Roma XIV con il CAP 00135 e così pure la città di Brescia.

Periodo Primo cittadino Partito Carica Note
1979 1980 Giuseppe Iseppi ? Sindaco
1980 1982 Aldo Corsetti Lista civica Sindaco
1982 1990 Fernando Pace Lista civica Sindaco
1990 1995 Mario Rizzi Lista civica Sindaco
1995 1999 Mario Rizzi Lista civica Sindaco [120]
1999 2004 Angelo Andreoli Lista civica Sindaco
2004 2009 Angelo Andreoli Lista civica Sindaco
2009 2014 Davide Pace Lista civica Sindaco
2014 2019 Davide Pace Lista civica Sindaco
2019

2024

Davide Pace Lega Sindaco
2024 in carica Flavio Corsetti Lista civica Sindaco

Proposta di riaggregazione al Trentino-Alto Adige

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Eventuale posizione del comune di Valvestino nella provincia autonoma di Trento

Insieme a numerosi altri comuni in situazioni simili, la popolazione di Valvestino ha richiesto in seguito di essere nuovamente annessa alla provincia di Trento[121]. Nel 2005 il comune ha aderito all'"Associazione dei comuni confinanti" e dal 2007 i due comuni di Valvestino e di Magasa, con l'appoggio di comitati spontanei di cittadini, si sono attivati per l'indizione di un referendum[122].

Nel comune di Valvestino, il 21 e 22 settembre 2008, contemporaneamente al comune di Magasa si è tenuto il referendum per chiedere alla popolazione di far parte integrante della regione Trentino-Alto Adige sotto la provincia di Trento. Il risultato è stato positivo nonostante l'elevato quorum richiesto dal referendum (maggioranza degli aventi diritto al voto).

Il 7 ottobre 2009 il senatore Claudio Molinari, del Partito Democratico, ha presentato un disegno di legge per il ritorno del Comune di Valvestino e Magasa nella Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.

Il 18 maggio 2010 il Consiglio regionale Trentino-Alto Adige approvava quasi all'unanimità dei votanti una mozione per l'aggregazione alla Regione dei comuni di Magasa, Valvestino e Pedemonte attivando la Giunta per "sollecitare nelle sedi competenti, il tempestivo e positivo esame dei Disegni di legge costituzionale" depositati in Parlamento a Roma[123] e il 14 aprile del 2015 il Consiglio regionale della Lombardia si esprimeva allo stesso modo approvando la mozione che esprimeva parere favorevole al passaggio al Trentino dei due comuni[124].

  1. ^ Bilancio demografico mensile anno 2023 (dati provvisori), su demo.istat.it, ISTAT.
  2. ^ Classificazione sismica (XLS), su rischi.protezionecivile.gov.it.
  3. ^ Tabella dei gradi/giorno dei Comuni italiani raggruppati per Regione e Provincia (PDF), in Legge 26 agosto 1993, n. 412, allegato A, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile, 1º marzo 2011, p. 151. URL consultato il 25 aprile 2012 (archiviato dall'url originale il 1º gennaio 2017).
  4. ^ Richard Lepsius, Das westliche Süd-Tirol geologish dargestellt, 1878.
  5. ^ Legno fossile.
  6. ^ La Cardita è un genere di molluschi bivalvi marini della famiglia Carditidae.
  7. ^ Monte Denai e Cima Rest
  8. ^ R. Lepsius, L'Alto Adige occidentale, Berlino, 1878, pag. 254.
  9. ^ Ottone Brentari, Guida del Trentino, pubblicato da Premiato stabil. tipogr. Sante Pozzato, 1902
  10. ^ Il monte Vesta svetta nei pressi del villaggio di Bollone e per alcuni prende il nome dalla dea della mitologia romana Vesta.
  11. ^ Claudio Fossati, Peregrinazioni estive -Valle di Vestino, in "La Sentinella Bresciana", Brescia 1894.
  12. ^ Località del comune di Valvestino
  13. ^ Frazione del comune di Valvestino
  14. ^ C. Marcato, Dizionario di Toponomastica, Torino, 1990.
  15. ^ Giacomo Devoto, Gli antichi Italici, p. 126.
  16. ^ Devoto, p. 233.
  17. ^ G. Alessio e M. De Giovanni, Preistoria e protostoria linguistica dell'Abruzzo, Edizioni itinerari, 1983.
  18. ^ Paolo Guerrini, Santuari, chiese, conventi, Volume 2,Edizioni del Moretto, 1986.
  19. ^ Cipriano Gnesotti nelle Memorie per servire alla storia delle Giudicarie disposte secondo l'ordine dei tempi, 1786 che a pagina 64 scrive:"Io non do del passaggio per vero, solamente riferisco nel suo essere quel che trovo: ed il umile per altro passaggio per Val Sabbia, o Val di Vestino di Alessandro III papa, di cui ci ricorda la tradizione una iscrizione sulla parete esteriore della parrocchiale e pievana Chiesa di Savallo in Val Sabbia, ed in Val di Vestino si vocifera che quello papa vi concedesse l'indulgenza del Perdono bella ultima Domenica d'agosto. La verità crederei piuttosto che fosse questa: che cadendo in quest'ultima domenica la Consacrazione della Chiesa Rettorale, nella quale in allora sia concessa una indulgenza per chiamarvi que' popolani a farne l'anniversaria adorazione, e questa si chiama ancora Perdono. Di certo il concorso è grande, e maggiore era tempo fa, quando vi concorreva la milizia nazionale. Bolla di indulgenza non si può mostrare perita, credo, nell'incendio della canonica di Turano.
  20. ^ A. Mazza, Tradizioni bresciane, i santi, i riti, il folclore, i privilegi, Brescia, 2002.
  21. ^ Cipriano Gnesotti, Memorie per servire alla storia delle Giudicarie disposte secondo l'ordine dei tempi, 1786, pag.66.
  22. ^ Il testo della lapide recita:"Alex III papa a feder/imper vexatus ha transisse Fer. hanq/ plebem benedixisse / ut stia de sacello/ et fonte hic parum/ dissetate dicitura".
  23. ^ Il Cinquecento, in Valtrompia nella storia, p. 175.
  24. ^ La memoria epigrafica intorno ad una strana leggenda sulla fuga del papa Alessandro III ai tempi di Federico Barbarossa, murata dietro l'altar maggiore, della parrocchia dice così: HAS.SVB. ALTARE.RELIQVIAS / QVAS. VT. FERTVR. ALEX. PONT. MAX. / SEVITIAM. FEDERICI. IMPER.FVGIENS / HVIC.DONAVERAT.ECCLAE. NVNC. DONATVS / SAVALLVS. CIVI.BRIX.ET.HVIVS.RECTOR. / CVM.POPVLO.PSVIT.DEVOTISS. / P.KAL.MAII / MDXIV.
  25. ^ Cipriano Gnesotti nelle Memorie per servire alla storia delle Giudicarie disposte secondo l'ordine dei tempi, 1786, scrive a pagina 87 e 88: "Il passo per Trento e Verona non era sicuro, dovendo attraversare il paese de' ribelli, scrive il Muratori, che da Trento nel 1166 passò per la Valcamonica e Brescia. Un principe coraggioso, e tollerante della fatica poté porsi in un viaggio si disastroso. Quale strada tenesse non so accettare. Sembra, che dall'Adige al Garda, da Garda a Toscolano, Val di Vestino, Lodrone, o da Roveredo, Torbole, Limone, Tremosine, Tignale, terra annessa allora al Principato, e vescovo di Trento, Val di Vestino. Ciò accenno perché vi è tradizione (se non è favolosa invenzione) che venisse su per la Val di Vestino, e passando per Cingolo Rosso calasse giù in Lodrone, i di cui signori si crede costantemente, che gli fossero ben affetti, per indi nelle strade di Bagolino e Crux Domini o sia Crusdomine accostarsi a Valcamonica. Veramente si pretende la tradizione assistita da alcune lettere mal incise, e fuori ordine l'un dall'altra in macigno vicino al luogo cosiddetta della Scaletta, ma sulle pertinenze di Bondone, sulle strade di Cingolo Rosso ove, all'altezza di un mezzo uomo a stare sulla strada, si rilevano come AE, S, G, C, ma dissi, fuori ordine e linea; in poca distanza poscia sotto la strada si rilevano su un termine le divisioni delle Comunità, non si sa per altro intendere come tenesse quella strada, se non, veggendosi lungo l'Adige difficoltato il viaggio intrapreso, con poco esercito per affrettare e con segretezza il suo intento attraversasse quei monti".
  26. ^ a b Provveditorato di Salò, Provveditorato di Peschiera Di Salò, Provveditorato, 1978, p. 107.
  27. ^ Brescia rassegna mensile illustrata, Brescia, 1935, p. 20.
  28. ^ Mauro Neri, Mille leggende del Trentino: Valle dell'Adige e Trentino meridionale, 1996.
  29. ^ Aurelio Garobbio, Alpi e Prealpi: mito e realta, Val Trompia e Val Sabbia, Lago di Garda, Monte Baldo, Valli Giudicarie, Val di Non e Val di Sole, Bologna, Alfa, 1967, p. 77, SBN IT\ICCU\SBL\0158583.
  30. ^ Antonio Zieger, Storia del Trentino e dell'Alto Adige, 1926, p. 60.
  31. ^ a b Domenico Gobbi, Pieve e capitolo di Santa Maria di Arco, codice diplomatico sec. XII-XV, Biblioteca Cappuccini di Trento, Trento 1985.
  32. ^ Maria Cristina Belloni, Negli archivi di Innsbruck (1145-1284), Provincia di Trento, 2004.
  33. ^ Archivio storico di Riva del Garda, Regesti-documenti, capsa III e IV.
  34. ^ Pierpaolo Brugnoli, Casa Capetti ora Borghetti a Prognol di Marano di Valpolicella, in Annuario Storico della Valpolicella, pp. 133-148, 2005.
  35. ^ Elena Favaro, L'Arte dei pittori in Venezia e i suoi statuti, 1975.
  36. ^ Giuseppe Ippoliti e Angelo Maria Zatelli, Archivi Principatus Tridentini regesta, sectio latina (1027-1777), Trento, 2001, pp. 203-204.
  37. ^ Franco Bianchini, Le pergamene dell'archivio parrocchiale di Praso, in Judicaria n. 88, pag. 128, Tione di Trento, aprile 2015.
  38. ^ Archivio Trentino, volume 27-29, pagina 71, Trento 1912.
  39. ^ Comune di Bezzecca, Inventario dell'Archivio Storico (1335-1942) e degli archivi aggregati, pp. 18 e 19.
  40. ^ Maria Odorizzi e Renata Tomasoni, in Famiglia Consolati e famiglia Guarienti. Inventario dell'archivio (1239-1956), Provincia autonoma di Trento. Soprintendenza per i beni culturali, Trento 2016.
  41. ^ Archivio del Principato vescovile di Trento, sezione latina, SLC08N042_01.
  42. ^ Comune di Bezzecca, Inventario dell'Archivio Storico (1335-1942) e degli archivi aggregati, pp. 19 e 22.
  43. ^ Diario ordinario numero 2393 in data dei 2 dicembre 1797, Roma, pp. 23 e 24.
  44. ^ A.C. Storo, pergamena n. 21, 1405, 21 agosto, Lite, compromesso fra la comunità di Storo e quelle di Magasa, Armo, Persone, Moerna e Turano nella Val Vestino causa la lite per i rispettivi confini del monte Tombea.
  45. ^ Lite- Compromesso fra la comunità di Storo e quelle di Magasa, Armo, Persone, Moerna e Turano nella Valle di Vestino nella lite per i rispettivi confini del monte Tombea. 1405 agosto 21, Villa (Condino) (S) In Christi nomine. Amen. Anno eiusdem domini nostri Ihesu Christi millessimo quadrigentessimo quinto, inditione decima tercia, die veneris vigessimo primo exeunte mense augusti, in villa de subtus tere Condini, plebatus Condini, diocesis Tridenti, super platea comunis ipsius tere Condini, apud domum comunis hominum et personarum predicte tere Condiny, presentibus magistro Glisento fabro condam Gulielmy fabri, Iohane dicto Mondinelo filio condam Mondini, Antonio fillio Iohanis dicty Mazuchini condam Pecini, predictis omnibus de villa Sasoly dicty plebatus Condini; Condinello fillio condam Zanini dicty Mazole de dicta villa de subtus, suprascripte tere Condiny, et Antonio dicto Rubeo viatory condam Canaly de villa Pori plebatus Boni, nunc habitatore ville Vallerii, dicty plebatus Boni et prefate diocesis Tridenti, testibus et aliis quam pluribus ad hec vocatis et rogatis. Ibique Benevenutus dictus Grechus fillius condam Bertolini de villa Setauri, plebatus Condini suprascripti et suprascripte diocesis Tridenti, pro se et tamquam procurator, sindicus sufficiens principaliter et legiptimus negociorum gestor hominum et personarum ac comunitatis et universitatis dicte ville Setaury suprascripti plebatus Condini, de quo patet ipsum esse sindicum sufficientem publico instrumento scripto manu et sub signo et nomine condam ser Bartholomey condam ser Pauly notarii de villa Levi suprascripti plebatus Boni, publici imperialis auctoritate notarii, intitullato sub annis Domini millesimo trecentessimo nonagessimo primo, inditione quartadecima, die dominico vigesimo quarto mensis septembris, ex parte una agens et petens; et Iohaninus condam Dominicy de villa Turani vallis Vestini premisse diocesis Tridenti, pro se principaliter et tanquam procurator, sindicus sufficiens et negociorum gestor legiptimus [sic] hominum et personarum ac comunitatum et universitatum villarum Magase, Armi, Personi, Turani et Moierne dicte valis Vestini et prefate diocesis Tridenti, de quo patet ipsum esse procuratorem et sindicum sufficientem publico instrumento sindicatus scripto manu et sub signo et nomine Francischini condam Iohanini olim Martini de villa Navacii, comunis Gargnani locus [sic], riperie lacus Garde diocesis Brixiensis, publici imperialis auctoritate notarii, intitullato sub annis Domini millesimo quadrigentessimo quinto, inditione decimatercia, die vigessimo quarto mensis iunii, ex parte allia se deffendens; habentes ad infrascripta et ad alia quam plura peragenda generale, plenum, liberum ac speciale mandatum, cum plena, libera et generali administratione, unanimiter et concorditer et nemine ipsorum discrepante, vollentes et cupientes ad concordium pervenire finemque debitum inferre liti diucius inter predictos homines et personas ac comunitatem dicte ville Setaury et homines et personas ac comunitates dictarum villarum Magase, Armi, Personi, Turani et Moierne suprascripte valis Vestini ventillate imponere et causa parcendi sumptibus et expensis, dampna et scandalla, rixas et dissensiones fugandi (?) et mitigandi, pro bono pacis et concordie, ut inter dictas partes perpetuis et mutuis vicissim in causa et lite infrascripta destet [sic] et servetur amor, de et super lite, causa et questione montis qui dicitur la Tombeda, positi et iacentis in teratoriis et inter montes et confines hominum et personarum comunitatum et universitatum dictarum villarum Magase, Armi, Personi, Turani et Moierne dicte valis Vestini, et montes et confines hominum et personarum comunitatis et universitatis dicte ville Setaury, videlicet quia a mane et a setentrione choerent homines et persone dictarum villarum valis Vestini et a meridie et a sero choerent homines et persone dicte vile Setaury, cum omnibus suis choerenciis, conexis et dependentibus ab eadem; que quidem causa et lis talis erat. Petebat namque suprascriptus Benevenutus dictus Grechus, pro se principaliter et tanquam procurator et sindicus sufficiens et negociorum gestor legitpimus suprascriptorum hominum et personarum ac comunitatis et universitatis dicte ville Setaury, predictum montem Tombede, situm et iacentem inter suprascriptos confines, cum omnibus suis choerenciis, conexis et dependentibus ab eodem, dicens, asserens et proponens ipsum montem qui dicitur la Tombeda de iure spectare et pertinere ipsis hominibus et personis ac comunitati universitati dicte ville Setaury, et quod ipse et persone ac homines dicte comunitatis ville Setaury et dicta comunitas et ipsius ville predecessores iam X, XX, XXX, L, LXXX et centum annis ultra continue et ab inde citra et tanto tempore, cuius amicy vel contrarii memoria hominis non extat, pascullaverunt et pascuaverunt cum dictorum hominum, personarum et comunitatis predictarum bestiis et armentis quibuscunque, cuiuscunque generis et qualitatis existant, in et super dicto monte qui dicitur la Tombeda, tamquam in re sua propria et libera, sine dictorum hominum et personarum comunitatum et universitatum villarum predictarum Magase, Armi, Personi, Turani et Moierne molestia, perturbatione vel contraditione aliqua. Quibus omnibus sic petitis per suprascriptum Benevenutum dictum Grechum, pro se et tamquam sindicum sufficientem et procuratorem et sindicario ac procuratorio nomine dictorum hominum et personarum comunitatis et universitatis dicte ville Setaury, suprascriptus Iohaninus condam Dominicy de dicta villa Turani, pro se et tanquam sindicus sufficiens et procurator ac legiptimus negociorum gestor dictorum hominum et personarum comunitatum et universitatum dictarum villarum Magase, Armi, Personi, Moierne et Turani dicte valis Vestini, contradicebat et opponebat expresse, ac ipsa petita et narata per dictum Beneventum dictum Grecum, sindicum sufficientem et sindicario nomine quo supra, contradicendo, instantissime denegabat, dicens et aserens et protestans ipsum montem totum qui dicitur la Tombeda, cum omnibus suis choerenciis, conexis et dependentibus ab eo, solummodo spectare et pertinere dictis hominibus et personis suprascriptarum villarum comunitatum et universitatum Magase, Armi, Personi, Moierne et Turany, et non aliqualiter ipsis hominibus et personis comunitatis et universitatis dicte ville Setaury; elligerunt et nominaverunt comunes amicos et amicabilles conpositores, arbitros et arbitratores ac arbitramentatores ac bonos viros hoc modo: quia dictus Benevenutus dictus Grechus, pro seipso et dicto nomine, ellegit et nominavit et se libere lassavit in Iacobum filium condam ser Iohanini de villa Agroni suprascripti plebatus Boni, Iohanem dictum Pizolum habitatorem predicte ville de subtus suprascripte terre Condiny fillium condam Guilielmy dicti Pantere de villa Loche valis Leudri premisse diocesis Tridenti et olim habitatoris ville suprascripte Pory, Iacobum notarium fillium condam * * * de villa Cumegely plebis Blezii prefate diocesis Tridenti, et Iohanem notarium fillium ser Petri notarii fillii condam ser Dominicy notarii de predicta villa de subtus dicte tere Condiny; et suprascriptus Iohaninus condam Dominicy, pro seipso et dicto nomine, ellegit et nominavit et se libere lassavit in Pecinum fillium condam ser Silvestry dicty Tonsy de dicta villa Pory, Franceschinum condam ser Iohanini de dicta villa Agroni, Iohanem condam ser Maifredini de villa Fontanedy suprascripti plebatus Boni, et Iohanem filium Pecini dicty Rege condam Zanini de dicta villa Sasoly suprascripti plebatus Condiny, absentes tanquam presentes; dantes et concedentes predicty sindicy, pro se et sindicariis nominibus antedictis nominibus quorum agunt, predictis bonis viris, amicis comunibus, amicabillibus conpositoribus, arbitris et arbitratoribus ellectis per dictas partes, plenam, liberam, integram auctoritatem et bailiam, cum plena, libera ac generali administratione, potestate et bailia audiendi, arbitrandi, laudandi, diffinendi, declarandi, promulgandy, sentenciandi, mandandi, disponendi, pronunciandy, precipiendi, conditiones apponendy et sublevandi penamque magnam vel parvam in dicta diffinitione seu laudo, arbitramento vel sentencia apponendy, pacem, finem, remissionem, quietationem, transactionem cum pacto inrevocabilli de ulterius non petendo fieri faciendi, et generaliter omnia et singula faciendi et exercendi in predictis et circha, prout et secundum suprascriptis ellectis vel ipsorum maiori parti eis placuerit et eis videbitur convenire, vel ipsorum maiory parti, de eo et de hiis ac super hiis que vel quod declarabit aut taxabit eorum dictum et arbitramentum vel partis maioris ipsorum super premissis et quolibet premissorum, alte et base, bene et male, absque aliqua libelli oblatione vel litis contestatione, vel cum scriptis et sine scriptis, de iure et de facto, super unoquoque casu et pacto questionis predicte, cum choerenciis, chonexis et dependentibus ab eadem, super quibuscunque capitulis et partibus tam de sorte et principalii causa, quam de expensis et interesse, diebus feriatis et non feriatis, ubicunque locorum seu terarumque [sic] sentenciare potuerint, sine strepitu et figura iudicii, soli facti veritate inspecta cum Deo et equitate, iuris ordine servato et non servato, quandocunque et qualitercunque, stanto, sedendo, partibus elligentibus presentibus vel absentibus, aut parte una presente et alia absente, partibus citatis et non citatis, semel et pluries; et si quid in suprascriptis omnibus preterirent, non obstet vel preiudicet quominus valeat quod sentenciatum, dictum, declaratum et pronunciatum sive arbitramentatum fuerit et roboris obtineat firmitatem. Quocircha partes premisse elligentes, pro se et dictis nominibus, scilicet una pars alteri et altera altery, sibi ad invicem et vicissim promiserunt et convenerunt expressim stare, parere, executioni mandare et plenissime obedire omni eorum ellectorum dicto, laudo, diffinitioni, declarationi et sentencie et precepto, arbitramento et pronunciationy, mandato et disposito, uni vel pluribus, et omnibus et singulis que super predictis et quolibet predictorum, cum omnibus suis chonexis et choerentibus et dependentibus ab eisdem, dixerint, laudaverint, diffinierint, declaraverint, sentenciaverint, preceperint, arbitramentati fuerint, pronunciaverint, mandaverint et disposuerint, ynibuerint, aposuerint et sublevaverint dicty ellecti, amicy comunales et amicabiles conpositores, arbitri et arbitramentatores, vel ipsorum maior pars, diebus feriatis et non feriatis, alte et base, quandocunque et qualitercunque, stando et sedendo, in omnibus et per omnia prout superius dictum est; promittentes dicte partes pro se et dictis nominibus ad invicem et vicissim, solempnibus stipulationibus hinc inde intervenientibus, quod predictas sentenciam, laudum, diffinitionem, pronunciationem, mandatum, dispositum, inibitionem, unum vel plures seu plura, per ipsos arbitros comunes electos, amicabiles conpositores et arbitramentatores latas, factas et datas, sive lata, data et facta et danda super predicta causa, tam super principali causa quam super expensis, dampnis et interesse et quolibet predictorum, illico lata et data et publicata dicta pronunciatione, diffinitione, declaratione, dicto, sentencia, mandato et disposito, obedient, parebunt, acquiescent, emollogabunt et ratifficabunt et aprobabunt omnia per eos vel ipsorum alteram maiorem partem facta, dicta, declarata, pronunciata, promulgata, sentenciata, mandata et arbitramentata, et contra premissa sic pronunciata, dicta et declarata in aliquo non contravenient tacite vel expresse et in nullo contrafacient de iure vel de facto per se vel alios, et a premissis vel aliquo ipsorum, seu a dicta pronunciatione, declaratione, sentencia, diffinitione et arbitramento, laudo vel ordinatione, ynibitione, super hiis per ipsos ellectos faciendi vel faciendo et ferendo, numquam appellabunt vel proclamabunt, nec super illis vel eorum aliquo aliquam controversiam, exceptionem, negationem vel dissensionem iuris vel facty, generalem vel specialem, obicient vel opponent, nec recurent vel petent predicta vel aliquod predictorum reduci debere ad arbitrium boni viry, nec ea petent revocary seu moderari aliqua ratione vel causa, etiam si inique fuisset seu fuerit dictum, declaratum, pronunciatum, sentenciatum et arbitramentatum vel dictum ultra vel intra dimidiam iusti; renunciantes partes premisse, nominibus quibus supra, reductioni arbitrii boni viry et recursu ac recursum habendo ad arbitrium boni viry et omnibus iuribus et legibus canonicis et civilibus, privillegiis, rescriptis et statutis que in tallibus recursis habery valeat et peti possit, dictam pronunciationem, laudum, arbitramentum, sentenciam et declarationem reducendi ad arbitrium boni viry, appellationis et suplicationis necessitati et remedio; quibus reductioni, appellacioni et suplicationi per pactum expressum stipullatione vallatum dicte partes renunciaverunt et remiserunt, omnique alii iuri et legum auxilio per quod contra premissa vel infrascripta facere possint quomodolibet vel venire. Que omnia et singula suprascripta promiserunt dicte partes, pro se et dictis nominibus sibi ad invicem et vicissim solempnibus stipullationibus hinc inde intervenientibus, perpetuo firma et rata ac grata habere et tenere, adimplere ac executioni mandare et non contra facere vel venire per se vel alios aliqua ratione, causa vel ingenio de iure vel de facto, et in pena ducentorum ducatorum boni auri et iusti ponderis ad invicem solempni stipulatone promissa, cuius pene medietas aplicetur et atribuatur Camere reverendissimi domini domini episcopi Tridenti, qui nunc est vel pro tempore fuerit, domino generali suprascripte ville Setauri, et alia medietas pene predicte aplicetur et atribuatur nobilli viro domino Petro de Lodrono, domino generaly dictarum villarum Magase, Armi, Personi, Moierne et Turani dicte valis Vestini, et que pena tociens comitatur et comitti et exigi possit cum effectu, quociens per quamcumque dictarum parcium in singulis capitullis huius ellectionis et contractus contra factum fuerit seu ventum; qua pena soluta vel non, nichilominus predicta omnia et singulla in suo robore et in sua firmitate perdurent. Item sibi et vicissim promiserunt partes predicte reficere et restituere omnia et singula dampna, expensas et interesse litis quod, que vel quas et quantas una pars occassione alterius sive culpa contra predicta faceret, fecerit vel substinuerit in iuditio vel extra. Pro quibus omnibus et singullis sic atendendis et inviolabiliter observandis, dicte partes, pro se et dictis sindicariis nominibus, obligaverunt sibi ad invicem et vicissim omnia sua bona ac etiam dictarum comunitatum presentia et futura. Qui sindicy antedicty, pro se et dictis nominibus, dixerunt et protestati fuerunt se velle uti predictis instrumentis sindicatuum et mandatorum tamquam bonorum et sufficiencium; que instrumenta ibidem fuerunt visa et lecta, producta atque ostensa. Insuper predicty Benevenutus dictus Grechus et Iohaninus condam Dominicy, pro se et dictis sindicariis nominibus, in animas suas et dictorum constituencium, ut predicta maius robur et vincullum obtineant firmitatem, sponte et ex certa scientia iuraverunt, corporaliter ad sancta Dey evanguelia manu tactis sacrosanctis scripturis, omnia et singulla suprascripta, prout et secundum quod superius est expressum, perpetuo firma et rata habere et tenere et non contra facere vel venire per se vel alios pretextu seu occassione modicy vel enormis dapmni seu alia quacumque ratione vel causa, de iure vel de facto, presertim sub virtute huius prestiti sacramenti; et partes predicte rogaverunt me notarium infrascriptum ut de predictis publicum conficere deberem instrumentum cum consillio sapientis et omnibus modis quibus melius de iure vallere possit et tenere, substancia tamen contractus non mutata, dandum unicuique parti, videlicet singullum pro singulla parte, si opus fuerit. Demum huic ellectioni et omnibus et singullis suprascriptis nobillis vir dominus Petrus condam nobilis viri domini Parisii de Lodrono prefate diocesis Tridenti, tamquam dominus generalis hominum et personarum comunitatum et universitatum suprascriptarum villarum Magase, Armi, Personi, Moierne et Turani suprascripte valis Vestini, pro parte dictorum sindicy et hominum valis predicte Vestini ibi et omnibus ac singullis suprascriptis presens et audiens ac videns, suam auctoritatem [et] decretum interposuit; et honorabilis vir dominus Mateus, notarius et civis Tridenti, asesor nobillis et egregii viri domini Erasmi de Tono valis Annanie, vicarii generalis Iudicarie pro reverendissimo in Christo patre et domino domino Georgio, Dey et apostollice sedis gracia dignissimo episcopo et presule Tridentino nec non generali domino et pastore predictorum hominum dicte ville Setaury, pro parte dictorum hominum et sindicy dicte ville Setaury hiis omnibus et singullis presens et ea videns et audiens, suam ac comunis et populi civitatis Tridenti interposuit auctoritatem et iudiciale decretum, faciens in hac parte vices prelibati domini Erasmi vicarii Iudicarie. Ego Petrus fillius condam ser Franceschini notarii de Isera, civis Tridenti, nunc habitator ville Stenicy valis Iudicarie suprascripte, publicus imperiali auctoritate notarius, hiis omnibus et singullis interfuy, et a suprascriptis partibus rogatus unaa cum infrascripto Paulo notario collega meo in hac causa scribere, publice scripsi, dictaque instrumenta sindicatuum et mandatorum, de quibus supra fit mencio, vidi, legi et perlegi et omny prorsus lesura et suspitione charencia.
  46. ^ F. Bianchini, Antiche carte delle Giudicarie IX, Carte lodroniane IV, Documento n. 75, Centro Studi Judicaria, Tione di Trento, 2009, pp.1-6.
  47. ^ M. Bella, Acta Montium, Le Malghe delle Giudicarie, 2020, pag. 20.
  48. ^ Nella seconda metà del XIV secolo la casata dei Lodron si era divisa in due rami: quello di Castel Lodrone guidato da Pietro Ottone (1381-1411) di Pederzotto di Lodrone ma chiamato anche Pietrozotto in alcuni documenti, detto "il Pernusperto" oppure "il Potente", e quello di Castel Romano. Pietro, uomo d'arme in perenne lotta contro la famiglia dei D'Arco per il possesso delle Giudicarie, sostenne lealmente il vescovo di Trento, e il suo vicariato fu ben ripagato: il 7 novembre 1385 il vescovo Alberto infeuda il castel Lodrone ai fratelli Pietrozotto, Alberto, Albrigino, Iacopo Tomeo e Parisio. Nel 1386 ricorre al duca Gian Galeazzo Visconti per certe pretese sul Pian d'Oneda e sul Caffaro contro Bagolino e ne viene smentito. L'11 aprile del 1391 e l'8 giugno 1391 il vescovo Giorgio di Liechtenstein lo investì con il fratello Albrigino del castello di Lodrone e della riscossione di varie decime; il 24 novembre 1399 tutti i feudi di Lodrone compresi Castel Romano e le sue pertinenze (fino ad allora appartenuti ai signori di Castel Romano) sono investite a Pietro dal vescovo Giorgio che dichiara ladri, assassini, perfidi, e felloni i detti fratelli Lodrone, li spoglia dei feudi di Castel Romano, del Dosso Sant'Antonio, delle decime di Lodrone e vassalli su Bondone, di Condino e Storo per aver parteggiato con i Visconti contro il loro Vescovo. Nel 1400 parteggiò per i Visconti e nel 1401 è al seguito di Roberto il Bavaro contro Galeazzo Visconti. Il 2 aprile 1407 figura a fianco di Rodolfo de Belenzani nella rivolta contro il vescovo Giorgio che viene imprigionato nella Torre Vanga. Il 22 ottobre 1412 in Castelnuovo di Villalagarina unisce in matrimonio civile Guglielmo conte d'Amasia e Anna Nogarola di Verona. (Sulle tracce dei Lodron, a cura della Provincia autonoma di Trento, giugno 1999, pag. 173.).
  49. ^ G. Zeni, Al servizio dei Lodron. La storia di sei secoli di intensi rapporti tra le comunità di Magasa e Val Vestino e la nobile famiglia trentina dei Conti di Lodrone, Comune e Biblioteca di Magasa, Bagnolo Mella, 2007, pp. 45-59.
  50. ^ "Lares": trimestrale di studi demoetnoantropologici, Firenze, 1938.
  51. ^ Lenotti B., Leggende del Garda – Cenni storici, miti, tradizioni, usanze, folclore, Edizioni Manfrini, 1977.
  52. ^ Kirk PM, Cannon PF, Minter DW, Stalpers JA, Dictionary of the Fungi (10th ed.), Wallingford: CABI, 2008
  53. ^ G. Cristoforetti, Dell'ultima esecuzione capitale per stregoneria in terra trentina: una fonte inedita, Atti Acc. Rov. Agiati, Rovereto 2008.
  54. ^ U. Raffaelli, Tradizioni popolari e dialetti nel Trentino. L'inchiesta post-napoleonica di Francesco Lunelli (1835-1856), Edizioni U.C T. Trento, 1986, pp. 56 e 57.
  55. ^ U. Raffaelli, Tradizioni popolari e dialetti nel Trentino. L'inchiesta post-napoleonica di Francesco Lunelli (1835-1856), Edizioni U.C T. Trento, 1986.
  56. ^ A. Zuccagni Orlandini, Corografia fisica, storica e statistica dell'Italia e delle sue isole, corredata di un atlante, di mappe geografiche e topografiche, e di altre tavole illustrative di Attilio Zuccagni-Orlandini. Italia superiore o settentrionale. 3, Frazioni territoriali italiane incorporate nella Confederazione elvetica. Parte III, volume 7, Firenze, 1840, pp. 176 e 177.
  57. ^ A. Zuccagni Orlandini, Corografia fisica, storica e statistica dell'Italia e delle sue isole, corredata di un atlante, di mappe geografiche e topografiche, e di altre tavole illustrative di Attilio Zuccagni-Orlandini. Italia superiore o settentrionale. 3, Frazioni territoriali italiane incorporate nella Confederazione elvetica. Parte III, volume 7, Firenze, 1840, pp. 9, 176, 177, 223 e 224.
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  60. ^ Bollettino Ufficiale del Ministero Agricoltura e Foreste.
  61. ^ I tre ponti che scavalcano il lago artificiale della Valvestino prendono il nome dalle ditte appaltatrici che li costruirono negli anni sessanta del Novecento, così salendo da Navazzo percorrendo la strada provinciale numero 9 si incontra in successione: il ponte Vitti sul rio Vincerì, il ponte della Recchi a Lignago ove si può notare la vecchia Dogana e infine il ponte della Giovanetti sito sul torrente Droanello.
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  92. ^ Mario Mariani, Giorni di sole. Ricordi della nostra avanzata in Trentino, in Il Secolo XX, 1915.
  93. ^ Il colonnello Gianni Metello, comandò il Reggimento dal 24 maggio al 30 luglio 1915. Promosso al grado di generale nel 1916 fu posto al comando della Brigata fanteria "Udine"; nell'aprile del 1917 fu collocato in aspettativa temporanea di sei mesi a Napoli per infermità non dovute a cause di servizio; in seguito assunse il comando della Brigata Territoriale "Jonio". Metello era nativo di Montecatini Terme, classe 1861. Partecipò a tutte le campagne da Adua all'Africa Orientale. Decorato di una medaglia d'argento al valor militare e una medaglia di bronzo al valor militare. Fu tra i fondatori Dell'Associazione Nazionale Bersaglieri in provincia di Pistoia nel 1928 e primo presidente fondò la sezione Bersaglieri di Montecatini Terme nel 1934, divenendone presidente onorario fino alla morte avvenuta in Africa Orientale nel 1937.
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    Nota bene: il dato del 2021 si riferisce al dato del censimento permanente al 31 dicembre di quell'anno. Fonte: Popolazione residente per territorio - serie storica, su esploradati.censimentopopolazione.istat.it.
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  121. ^ A sostegno della richiesta si considerano la prima bozza dello Statuto provinciale del Trentino, del 1945, nella quale nei confini della costituenda "regione Tridentina" sarebbero stati ricompresi anche i comuni di Valvestino e di Magasa. I due comuni sono inoltre sottoposti alla giurisdizione trentina per il catasto e per i procedimenti giudiziari.
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Bibliografia

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