Le fenicie

tragedia di Euripide
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Le fenicie (in greco antico: Φοίνισσαι?, Phoínissai) è una tragedia di Euripide, che tratta un episodio del Ciclo tebano. Venne rappresentata per la prima volta nel 410 o 409 a.C. e faceva parte di una trilogia comprendente anche le tragedie Enomao e Crisippo (oggi perdute). L'argomento affrontato è lo stesso dei Sette contro Tebe di Eschilo: la reciproca uccisione dei fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo.

Le fenicie
Tragedia
Antigone davanti al cadavere di Polinice
(dipinto di Nikiphoros Lytras, 1865)
AutoreEuripide
Titolo originaleΦοίνισσαι
Lingua originale
AmbientazioneTebe, Grecia, davanti al palazzo di Edipo
Prima assoluta410 o 409 a.C.
Teatro di Dioniso, Atene
Personaggi
 

«Se è necessario agire ingiustamente, la cosa migliore è farlo per il potere.[1]»

Danno il nome alla tragedia un gruppo di donne fenicie che, destinate al santuario di Apollo a Delfi, arrivano a Tebe e assistono alla vicenda che qui ha luogo.

I fratelli Eteocle e Polinice si sono accordati per alternarsi, un anno a testa, al comando di Tebe. Scaduto il proprio anno però Eteocle non intende cedere il potere al fratello, sicché Polinice si presenta con un esercito proveniente da Argo (Polinice è marito di Argia, figlia del re di Argo) per reclamare i suoi diritti. Giocasta,[2] madre dei due fratelli, decide di convocarli per tentare di raggiungere un accordo, ma senza risultati.

Tiresia, indovino cieco, afferma che l'unico modo di salvare Tebe è sacrificare il figlio di Creonte, Meneceo, il quale accetta il responso e si uccide. Dopo un attacco fallito dell'esercito di Argo, Eteocle e Polinice si affrontano a duello, dandosi vicendevolmente la morte. Sui loro cadaveri la madre Giocasta si suicida. Creonte, nuovo re di Tebe, condanna Edipo e Antigone all'esilio, ed essi, affranti, abbandonano Tebe.[3]

Commento

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Una tragedia corale

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Le Fenicie è un dramma dai toni insolitamente epici, caratterizzato da scene di ampio respiro e notevole efficacia descrittiva, come quella in cui Antigone osserva dall'alto l'arrivo dell'esercito nemico. È una tragedia corale, popolata da numerosi personaggi, nessuno dei quali può veramente definirsi protagonista della storia. In questo modo, Euripide rinuncia ad approfondire la psicologia dei singoli personaggi, per offrire invece una situazione di gruppo. Si tratta però di un gruppo la cui sorte è segnata: Eteocle e Polinice sono entrambi fieri e irremovibili nelle loro motivazioni e, rifiutando qualsiasi accordo o compromesso, finiscono per correre verso un tragico finale (con la differenza tuttavia che il secondo reclama un proprio diritto, che il primo invece non vuole concedere). Anche gli altri personaggi del dramma restano imprigionati nel loro egoismo, andando inesorabilmente verso il disastro: alla fine della vicenda tutti i numerosi personaggi sono morti o esiliati (con l'eccezione di Creonte, re di Tebe) e lasciano così la scena vuota e abbandonata.[3][4]

La difesa della democrazia

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L'opera venne rappresentata ad Atene poco dopo un colpo di Stato oligarchico che aveva portato alla nascita della Boulé dei Quattrocento (411 a.C.), in un periodo in cui la Guerra del Peloponneso stava volgendo al peggio per Atene. Non pare quindi un caso che, proprio in un periodo così complesso, Euripide abbia scelto di mettere in scena un'opera che rappresenta un invito alla concordia, per evitare che anche Atene potesse essere colpita da sventure simili a quelle del mito tebano. In effetti i numerosi episodi della tragedia hanno come sfondo lo scontro tra tirannia e democrazia, ed Euripide in più occasioni ribadisce la necessità di salvaguardare la seconda mettendo da parte gli egoismi che, invece, caratterizzano i personaggi del suo dramma.[3][5]

Il ruolo del coro

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Antigone ed il corpo di Polinice

Il coro è il nucleo attorno al quale si sviluppò la tragedia greca, e per questo motivo nelle opere più antiche esso ha un'importanza fondamentale e interagisce spesso con gli attori (basti pensare alle tragedie di Eschilo, come Le supplici o i già citati Sette contro Tebe). Col passare del tempo però esso andò sempre più defilandosi, tanto che nelle ultime tragedie di Euripide il coro è spesso del tutto avulso dall'azione. Questo è proprio il caso delle Fenicie: il coro è composto da donne straniere che nulla hanno a che vedere con la vicenda. Esse semplicemente assistono agli avvenimenti e commentano ciò che accade, senza intervenire in alcun modo; c'è dunque una sorta di scollamento tra la trama e il coro. Tale tendenza viene stigmatizzata da Aristotele nella Poetica:

«Anche il coro poi occorre considerarlo come uno degli attori e bisogna che sia una parte integrante del tutto e che intervenga nell’azione, non come in Euripide ma come in Sofocle.»

La parte del coro peraltro continuerà a diminuire nei tragediografi successivi, fino a ridursi a brevi intermezzi tra le scene, intercambiabili tra una tragedia e un'altra. Il primo autore a utilizzare i cori in questo modo sarà Agatone.[6]

  1. ^ Questo verso, molto noto nell'antichità, era spesso ripetuto da Giulio Cesare, come riferisce Cicerone nel De officiis (III, 82).
  2. ^ Contrariamente a quanto accade nell’Edipo re di Sofocle, nelle Fenicie Euripide accoglie una versione alternativa del mito, narrata nei poemi del ciclo epico, in cui Edipo, cieco e carico d'odio, non è stato esiliato e vive ancora nel suo palazzo con la moglie-madre Giocasta, che non si è suicidata.
  3. ^ a b c Guidorizzi, p. 183.
  4. ^ Di Benedetto e Medda, pp. 145-146.
  5. ^ Carpanelli, pp. 123-125.
  6. ^ Di Benedetto e Medda, pp. 249-253.

Bibliografia

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Voci correlate

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Le altre tragedie del ciclo tebano:

Altri progetti

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