Lettere sull'origine delle scienze
Le Lettere sull'origine delle scienze (in francese: Lettres sur l'origine des sciences et sur celle des peuples de l'Asie) sono un'opera epistolare di argomento storico scritta dall'astronomo e letterato francese Jean Sylvain Bailly. Nell'opera Bailly pubblicò la vivace corrispondenza epistolare tra lui e il celebre filosofo Voltaire.[1]
Lettere sull'origine delle scienze | |
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Titolo originale | Lettres sur l'origine des sciences et sur celle des peuples de l'Asie |
Frontespizio dell'opera. | |
Autore | Jean Sylvain Bailly |
1ª ed. originale | 1777 |
Genere | opera epistolare |
Sottogenere | saggio storico-speculativo |
Lingua originale | francese |
Attraverso quest'opera Bailly proseguì il lavoro di speculazione storica già incominciato con l′Histoire de l'astronomie ancienne, portando avanti l'ipotesi dell'esistenza di un popolo atavico e scientificamente progredito, quello della civiltà perduta di Atlantide, che dalla Siberia (dov'era anticamente situato) discese prima in Asia e poi in Europa trasmettendo le proprie conoscenze scientifiche ai vari popoli dell'antichità recente, come i Cinesi, i Persiani, i Caldei e gli Indiani. Basandosi su prove di varia natura - prove linguistiche, mitiche, climatiche e astronomiche - Bailly cercò di dimostrarne l'esistenza, senza però convincere del tutto il suo destinatario Voltaire che, pur apprezzando le idee di Bailly, rimaneva invece convinto che la culla del genere umano fosse situata in India.[1][2]
L'opera ebbe all'epoca un notevole clamore, con i giudizi della critica del tempo divisi tra chi apprezzava il lavoro dell'astronomo ammettendo la sussistenza della ricostruzione storica da lui proposta e chi invece, per motivi di varia natura, non accettò le ipotesi di Bailly ritenendole insussistenti.[1][2]
Genesi dell'opera
modificaNei primi capitoli dell'opera precedente, l′Histoire de l'astronomie ancienne del 1775, Bailly era giunto ad una serie di conclusioni, puramente ipotetiche, sull'antica storia dell'umanità. Egli aveva notato che le conoscenze - soprattutto quelle astronomiche - mostrate dai vari popoli antichi sembravano superare in modo inspiegabilmente ampio i mezzi che questi stessi popoli avevano a disposizione per acquisire quelle conoscenze. Inoltre gli aspetti fin troppo simili delle loro conoscenze (così come, simili, erano stranamente anche gli "errori" metodologici e interpretativi che commettevano) suggerivano con forza l'ipotesi dell'esistenza di una fonte comune, probabilmente nordica, un popolo antecedente con un sistema scientifico già sofisticato e che aveva, in qualche modo, istruito questi popolo. Tale civiltà antecedente Bailly la vedeva ben simboleggiata in Atlantide (sebbene non avesse ancora riconosciuto propriamente, come accade invece nelle Lettres, che quella civiltà antecedente fosse proprio Atlantide). Bailly fece inoltre riferimento alla teoria di una migrazione umana dal Nord verso il Sud, dovuta al raffreddamento terrestre che stava via via rendendo inabitabili le zone artiche, secondo le teorie paleoclimatiche di Buffon e di Mairan.
Subito dopo la pubblicazione dell′Histoire de l'astronomie ancienne, Bailly sì affrettò ad inviare una copia della sua opera a Voltaire il quale, in una lettera del 15 dicembre 1775, gli riconobbe alcuni meriti:
«J'ai bien des grâces à vous rendre, Monsieur; car ayant reçu le meme jour un gros livre de médecine et le vôtre, lorsque j'étais encore malade, je n'ai point ouvert le premier, j'ai déjà lu le second presque tout entier, et je me porte mieux. [...] Je vois dans votre livre, Monsieur, une profonde connaissance de tous les faits avérés et de tous les faits probables. Lorsque je l'aurai fini, je n'aurai d'autre empressement que celui de le relire; mes yeux de quatre-vingt-deux ans me permettront ce plaisir. Je suis déjà entièrement de votre avis sur ce que vous dites qu'il n'est pas possible que différents peuples se soient accordés dans les mêmes méthodes, les mêmes connaissances, les mêmes fables et les mêmes superstitions, si tout cela n'a pas été puisé chez une nation primitive qui a enseigné et égaré le reste de la terre. Or, il y a longtemps que j'ai regardé l'ancienne dynastie des Brahmanes comme cette nation primitive.»
«Le devo dire molte grazie, signore; perché dopo aver ricevuto lo stesso giorno un grande libro di medicina e il suo, quando ero ancora malato, non ho aperto il primo e invece ho letto il secondo quasi del tutto, e adesso sto anche meglio. [...] Vedo nel suo libro, signore, una profonda conoscenza di tutti i fatti noti e tutti i fatti probabili. Quando l'avrò terminato, avrò ancor più desiderio di leggerlo; i miei occhi di ottantadue anni consentiranno di godermelo. Sono anch'io completamente del suo parere sul fatto che non è possibile che popoli diversi potessero aver avuto gli stessi metodi, le stesse conoscenze, le stesse leggende e le stesse superstizioni, a meno che tutto questo non fosse stato elaborato in un popolo primitivo che lo aveva insegnato e aveva ingannato il resto della Terra. Però io, da molto tempo, considero la vecchia dinastia dei Bramini indiani come tale popolo primitivo.»
Voltaire apprezzava le idee di Bailly, ed anche lui credeva che dovesse esistere un popolo anteriore a quelli conosciuti, però fu abile nel trasformare le fonti usate da Bailly contro di lui in difesa degli Indiani, il popolo che lui considerava progenitore di tutti gli altri. Gli Indiani, secondo Voltaire, erano il popolo che «aveva insegnato e aveva ingannato il resto del mondo», dove "insegnare" indica i metodi e le idee scientifiche, mentre "ingannare" si riferisce agli errori e alle superstizioni che comunque questo popolo aveva tramandato agli altri. In ogni caso la lettera ha un tono simpatico e comprensivo.
Ne nacque un'intensa e proficua corrispondenza epistolare che si evolse mano a mano contribuendo ad una più precisa definizione delle teorie storiche che erano già emerse nell′Histoire de l'astronomie ancienne. In una serie di dieci lettere scritte da il 10 agosto e il 24 settembre 1776, infatti, Bailly rielaborò con maggiori dettagli gli argomenti già propugnati in precedenza. L'intera corrispondenza tra Bailly e Voltaire apparve in un libro sotto il titolo di Lettres sur l'origine des sciences et sur celle des peuples de l'Asie, che fu pubblicato da Bailly nei primi mesi del 1777.[4]
In effetti non c'era nulla da perdere e c'era molto da guadagnare, da parte di Bailly, nel pubblicare questa corrispondenza privata in modo da aprirla al dibattito pubblico.[5] I due volumi che si erano evoluti nel corso di questa discussione suggerirebbero piuttosto che Bailly era abbastanza abile a riconoscere l'opportunità di acquisire una pubblicità di primo lignaggio. Le argomentazioni di Voltaire non erano poi così forti mentre le teorie dello stesso Bailly dovevano ancora essere smentite. Inoltre la teoria di Buffon e di Mairan sulle origini della Terra (con le sue implicazioni paleoclimatiche) era molto in voga e i misteri nascosti nelle cronache dell'Oriente continuavano a suscitare il vivace interesse del pubblico.[5]
È dubbio comunque che le lettere siano state inviate a Voltaire nella forma in cui sono state pubblicate, in quanto non vi è alcuna menzione di loro nella sua corrispondenza.[5]
Indice dei capitoli
modifica- Ia Lettera di Voltaire a Bailly.
- IIa Lettera di Voltaire.
- IIIa Lettera di Voltaire.
- Ia Lettera di Bailly a Voltaire, esposizione delle idee che saranno sviluppate in queste Lettere: Esame della questione se in generale gli antichi popoli conosciuti, e in particolare i Cinesi, siano stati gli inventori delle scienze.
- IIa Lettera di Bailly: Dei Persiani, dei Caldei & degli Indiani.
- IIIa Lettera di Bailly: Delle somiglianze tra i Cinesi, i Caldei, gli Indiani & gli antichi popoli, nelle tradizioni, negli usi, nella filosofia & nella religione.
- IVa Lettera di Bailly: Somiglianze tra i popoli antichi nelle scienze & nelle istituzioni che ne sono relative.
- Va Lettera di Bailly: Queste somiglianze non sono il prodotto della comunicazione.
- VIa Lettera di Bailly: Queste conformità non si trovano principalmente in natura, esse nacquero da un'identità d'origine tra tutti i popoli antichi & sono i resti delle istituzioni di un popolo più antico.
- VIIa Lettera di Bailly: Questo antico popolo ha avuto delle scienze perfezionate, una filosofia sublime e saggia.
- VIIIa Lettera di Bailly: Questo antico popolo sembra aver abitato in Asia, verso il 49º parallelo. Sembra che i lumi delle scienze & le popolazioni si siano estese sulla Terra, dal Nord al Mezzogiorno.
- IXa Lettera di Bailly: Sul fuoco centrale o calore proprio & interiore del globo.
- Xa Lettera di Bailly: Sul raffreddamento della Terra, o sulla diminuzione del calore proprio del globo.
Contenuto
modificaDopo la prima lettera di Voltaire la questione avrebbe benissimo potuto finire lì se il celebre filosofo di Ferney non avesse scritto una seconda lettera (del 19 gennaio 1776), in cui attaccava più specificamente i Tartari e gli Sciti:
«Il ne nous est jamais venu de la Scythie européenne et asiatique que des tigres qui ont mangé nos agneaux. Quelques-uns de ces tigres, à la vérité, ont été un peu astronomes, quand ils ont été de loisir, après avoir saccagé tout le nord de l'Inde. Mais est-il à croire que ces tigres partirent d'abord de leurs tanières avec des quarts de cercle et des astrolabes?»
«Nulla è mai giunto qui da noi dalla Scizia europea e asiatica se non delle tigri che mangiavano i nostri agnelli. Alcune di queste tigri, a quanto pare però, sarebbero state un po' astronome quando avevano del tempo libero, dopo aver saccheggiato l'intera India settentrionale. Ma si può credere che queste prime tigri lasciarono le loro tane con dei quadranti e degli astrolabi?»
Bailly difese gli Sciti nella sua risposta del 29 gennaio. Questa lettera in realtà non appare in alcun lavoro. Louis Moland menziona il fatto che appare in un catalogo autografo dove è descritta come una «bella lettera dove [Bailly] espone questa idea, comune a Voltaire e a lui, secondo cui gli Indiani sono il popolo più antico che la memoria ha fatto sopravvivere».[7] La lettera comunque suscitò una terza e più lunga risposta di Voltaire, documentata e riportata nelle Lettres. Voltaire infatti espresse i suoi dubbi sul fatto che gli Indiani fossero davvero caduti in un così profondo stato di ignoranza, come era stato riportato dai viaggiatori settecenteschi, ma negava in ogni caso che questo fatto significasse che si poteva smentire la loro superiorità originaria. Gli argomenti di Voltaire non sono soddisfacenti, in quanto sono più argomentazioni spiritose più che basate su evidenze fattuali, e, come del resto non infrequente in Voltaire, anche un po' auto-contraddittorie.[8]
La lettera di Voltaire mostrava, inoltre, una certa insofferenza da parte sua nei confronti della tenacia di Bailly.
«Vous faites, Monsieur, comme les missionnaires qui vont convertir les gens dans le pays dont nous parlons. Dès qu'un pauvre Indien est convenu de la création ex nihilo, ils le mènent à toutes les vérités sublimes dont il est stupéfait. Vous n'êtes pas content de m'avoir appris des vérités longtemps cachées; vous voulez toujours que je croie à votre ancien peuple perdu.»
«Lei si comporta, signore, come i missionari che vogliono convertire le persone nei paesi di cui stiamo parlando. Una volta che un povero indiano ha accettato la creazione ex nihilo (dal nulla), lo conducono a tutta una serie di verità sublimi di cui è stupefatto. Lei non è felice di avermi insegnato delle verità a lungo nascoste; ma vuole ancora che io creda nel vostro antico popolo perduto.»
In questo passo forse ci può essere una qualche giustificazione all'osservazione di Jean-Félix Nourrisson secondo cui «Bailly non riusciva a capire la cortesia ironica di un uomo anziano che voleva essere finalmente liberato da una polemica insipida».[10] Eppure Nourrisson sembra ignorare il fatto che fu Voltaire a prendere l'iniziativa nella corrispondenza e a scrivere relativamente a questo argomento "insipido". Bailly era certamente in grado di capire l'ironia di Voltaire.
Bailly accettò l'epiteto di "missionario": «Io potrei ben avere una parte dello zelo dei missionari, e anche della loro perseveranza: infatti desidero sempre che voi iniziate a credere al mio antico popolo perduto».[11] Assumendo una prospettiva di vista più ampia di Voltaire, Bailly ripercorse una buona parte dell'argomento trattato nell′Astronomie ancienne, esaminando dettagliatamente ciascuno dei popoli dell'antichità come possibile fonte anteriore di civiltà.
Le quattro più grandi civiltà dell'Asia erano quella Cinese, quella Persiana, quella Assiro-caldea e quella Indiana; Bailly disse di aver trovato presso queste civiltà solo dei frammenti sparpagliati delle arti e delle scienze, negando le notizie che ne attribuivano a loro la paternità. Le sue argomentazioni, principalmente tratte da considerazioni di tipo astronomico,[12] sono però numerose e di varia natura. Con esse Bailly voleva smentire che ognuna di esse potesse essere il popolo da lui vagheggiato, ragion per cui doveva esistere un'altra civiltà, allora sconosciuta e pressoché scomparsa dalla faccia della storia, e il suo obiettivo divenne individuarla.
Analisi della civiltà cinese
modificaPer quanto riguarda i Cinesi Bailly controllò soprattutto i racconti dei gesuiti della Cina pubblicati nelle Lettres édifiantes et curieuses[13] passo dopo passo per sostenere la sua opinione, secondo cui, nel primo periodo della loro storia, i Cinesi erano ben più dotti di quanto lo furono successivamente. Inoltre, secondo Bailly, Fu-Hi, Huang-Ti, e Yao, che erano i leggendari padri fondatori della Cina, in realtà non erano stati altro che dei leader colonizzatori stranieri, che avevano guidato delle grandi missioni migratorie quando le aree in cui si erano a lungo stabiliti erano diventate inabitabili a causa del raffreddamento della terra in atto secondo le teorie di Mairan, portando il loro popolo e la loro conoscenza in altre zone geografiche. I Cinesi di epoche più moderne, rilassandosi e oziando in queste zone climatiche più calde, secondo le teorie del determinismo geografico propugnate da Bailly e Buffon, avevano continuato a seguire questa conoscenza nella traccia ben battuta della tradizione, ma smettendo di compiere osservazioni astronomico-scientifiche e quindi senza compiere alcun progresso ulteriore in questo senso. La loro cultura, complice un clima geografico più caldo lascivo e ozioso, si era in qualche modo "congelata" e i Cinesi avevano smesso di progredire.
Nella seconda lettera, Bailly affermava inoltre, relativamente all'inizio del progresso scientifico dei Cinesi: «Ogni cosa cospira per portarci a quella antica astronomia che si è perduta, soprattutto agli sforzi fatti dai Cinesi per il suo recupero. Loro si sono persuasi che i loro primi imperatori, Fo-Hi, Hoangti e Yao fossero perfettamente a conoscenza di tale scienza e che alcuni suoi principi siano nascosti in vari monumenti e in particolare anche nel Lǐjì».[14] Fo-Hi,[15] secondo i Cinesi, era il padre della loro astronomia, ed era per questa ragione che essi, secondo Bailly, ricercavano i veri principi astronomici nelle misteriose Koua, ovvero le produzioni scritte a lui attribuite. I Cinesi cercavano i "principi dell'astronomia" anche nei tubi di bambù che, secondo la tradizione, generavano la musica dell'imperatore Hoangti. Ma per Bailly cercare l'astronomia in uno strumento musicale era «ridicolo come cercare il segreto della pietra filosofale nei versi di Omero».[16]
Ma per quanto assurdo potesse essere questo «pregiudizio religioso»[17] dei Cinesi, e per quanto stravagante si potesse ritenere questa fastidiosa sorta d'indagine astronomica laddove l'astronomia non c'entrava nulla, il forte credo da parte dei Cinesi del fatto che i monumenti di Fo-Hi contenessero i principi di un'antica astronomia da lui fondata, era una prova di due fatti: non solo dell'esistenza dell'astronomia presso di loro ed anche per il fatto che essa fu introdotta in Cina molto probabilmente dallo stesso Fo-Hi. Nello Shujing, un libro sacro e molto antico presso i Cinesi, questa astronomia conteneva dottrine di considerevole raffinatezza e Fo-Hi, secondo la tradizione, aveva costruito delle tavole astronomiche, assegnando delle figure ai corpi celesti, e pensando allo studio scientifico dei loro movimenti. Il punto solstiziale e quello equinoziale, ad esempio, furono scoperti così; in un breve lasso di tempo dopo a queste prime scoperte arrivarono, inoltre, l'invenzione della sfera, la scoperta della durata di un anno, consistente in 365 giorni e 6 ore, con l'anno bisestile, così come le fasi lunari conciliate col moto del Sole.
Bailly diceva di avere buone, se non ottime, ragioni per credere che tutti questi rami scientifici furono introdotti nel periodo di Fo-Hi e dei suoi primi successori. Insomma fu Fo-Hi a portare con sé tutte queste conoscenze pregresse, che i cinesi poi impararono in breve tempo. Anche perché, altrimenti, non si sarebbe potuto spiegare come i Cinesi, che a causa del clima caldo in cui vivevano erano invece «un popolo particolarmente statico»,[18] avrebbero potuto fare dei progressi scientifici così grandi in così poco tempo e per di più proprio agli inizi della loro storia documentata, che verosimilmente avrebbe dovuto essere invece il periodo in cui ogni livello di progresso, a rigor di logica, sarebbe stato più lento e difficile. In altre parole Bailly, dando per vera l'ipotesi del determinismo geografico sulla naturale staticità e sulla pigrizia dei popoli che abitavano terre più calde, come i cinesi, e tenendo in considerazione che spesso quando una scienza è agli inizi fa fatica a svilupparsi, giustificò l'impossibilità che i Cinesi avessero potuto progredire così tanto in campo astronomico in così poco tempo. Era perciò più probabile, secondo il suo ragionamento, che questa cultura astronomica fosse arrivata a loro a partire da un'altra popolazione, probabilmente grazie allo stesso Fo-Hi. Bailly insistette soprattutto sulla conoscenza del moto solare, accertata dal fatto che i Cinesi da Fo-Hi in poi conoscessero bene gli equinozi e i solstizi. «Quante epoche sarebbero servite e si sarebbero dovute dedicare allo studio del cielo, prima solo di sospettare la falsità del moto del sole? E quante ne sarebbero dovute trascorrere, prima che si potessero accertare i quattro intervalli del suo periodo?»[18] si chiese Bailly. Lo doveva capire anche Voltaire, che secondo Bailly «aveva ben osservato i tardivi e dolorosi progressi della mente umana»: non era materialmente possibile avere un progresso così grande in un tempo così effimero.
Era impossibile quindi spiegare il balzo fatto dall'astronomia e dalle scienze in Cina nel periodo di Fo-Hi, giudicato troppo breve, e come velocemente si era passati dall'ignoranza del passato, all'ampiezza della cultura scientifica da quel momento in poi. Ora, a meno che i Cinesi non fossero già edotti secoli e secoli prima di Fo-Hi, ipotesi che le evidenze storiche e mitiche della tradizione cinese parevano screditare del tutto, allora l'unica conclusione possibile rimaneva quella propugnata da Bailly: ossia che l'invenzione della sfera, e di tutte «quelle dottrine che vengono scoperte solo attraverso lo studio, la riflessione e un lungo insieme di osservazioni»[19] appartenevano ad una scienza già preesistente di un popolo straniero sconosciuto, di cui Fo-Hi faceva parte, e da tempo in uno stato di progressivo perfezionamento. Un balzo così veloce delle conoscenze non poteva infatti essere il lavoro di un singolo uomo, né il lavoro di una singola epoca, vista la naturale evoluzione che queste tutte queste idee dovevano necessariamente attraversare; e soprattutto ciò non potevano essere dovute ai Cinesi prima dell'avvento di Fo-Hi, visto che allora erano, secondo Bailly, «ancora rudi e barbari».[19] Per Bailly insomma fu Fo-Hi a civilizzarli, e anzi «non sarebbe poi così strano se Fo-Hi insegnò loro anche l'astronomia»,[19] lui che aveva insegnato al suo popolo anche «l'uso delle prime necessità della vita».[19]
Poteva parere anche assurdo, secondo Bailly, eppure la conclusione necessaria a tutte le prove da lui portate era unica, ovvero che le prime conoscenze astronomiche cinesi erano di origine straniera, e che Fo-Hi, straniero anche lui, le aveva introdotta in Cina.[12][20] Fo-Hi e i suoi successori, leader colonizzatori di un popolo straniero e sconosciuto che per motivi climatici era stato costretto a trasferirsi in territori più caldi, come quello dei cinesi, e che si era poi integrato con le popolazioni indigene che lì vi abitavano insegnando loro tutte le proprie conoscenze pregresse.
Analisi della civiltà persiana
modificaRiguardo ai progressi dei Persiani nelle scienze astronomiche, e con la prova che anche loro non potessero esserne gli inventori, Bailly fece la seguente osservazioni: «Tra il Mar Caspio e il golfo Persico, troviamo una civiltà che, in termini di l'antichità, è al pari di quella Cinese. Parlo dei Persiani, gli adoratori del fuoco e del sole. Questa modalità di adorazione è il sigillo della loro antichità: è il più razionale, e allo stesso tempo il più antico, tra i popoli che hanno frainteso la Causa creatrice e intelligente. Penso di aver dimostrato che l'Impero Persiano, e la fondazione di Persepoli, risalgono al 3209 a.C».[21]
Dai frammenti di Berosso preservati da Eusebio di Cesarea[22] Bailly citò la fondazione di Persepoli e dell'Impero persiano come avvenute, secondo lui, in un periodo di tempo molto propizio per le osservazioni astronomiche, e vide in questo la prova che fosse «una colonia di un popolo troppo popolato, o di una civiltà già istruita e civilizzata, che discese verso zone più temperate, più fertili e lì si stabilì con le sue arti e le sue conoscenze».[23]
Diemschid,[24] che costruì Persepoli, vi entrò e lì fondò il suo impero, nello stesso giorno in cui il Sole passava nella costellazione dell'Ariete. Questo giorno fu scelto nel loro calendario per far iniziare l'anno; e nella stessa epoca iniziò la loro conoscenza dell'anno solare di 365 giorni e sei ore. Anche per i Persiani, come per i Cinesi, le prove tradizionali evidenziavano il fatto che l'astronomia fosse coeva con l'origine del loro Impero, il che era alquanto strano: come poteva una civiltà solo all'alba del suo sviluppo maturare delle conoscenze astronomiche così approfondite? La circostanza astronomica che accompagnava la fondazione di Persepoli era una prova, secondo Bailly, che l'astronomia che questo popolo possedeva fosse più antica del popolo stesso. E non poteva essere di certo di un popolo rude e «infantile», la prerogativa che «fosse il cielo ad influenzare la terra»,[25] consacrando la fondazione della propria città con l'osservazione dei fenomeni celesti.
Bailly percepiva dunque che anche i Persiani, come i Cinesi, fossero nati da una colonia di migranti partita probabilmente «da un paese troppo popolato»,[25] una nazione già istruita e civilizzata, discesa in zone più fertili e temperate, dove si era insediata assieme a tutte le arti e le conoscenze che possedevano. Bailly scrisse: «Non possiamo dubitare che emigrazioni come queste fossero più frequenti in un periodo come quello, in cui la Terra era molto meno popolata, e in cui il genere umano era praticamente diviso in famiglie: una certa porzione della comunità, separando sé stessa dal resto, forse potente per il numero e l'unione, partita e guidata da lui [Diemschid] in piccole orde senza forza e incapaci di opporre resistenza. Dunque Diemschid e il suo popolo appaiono essere stati stranieri in Persia, come Fo-Hi in Cina.»[12][20]
Analisi della civiltà caldea
modificaI Caldei erano i successivi nell'ordine dei popoli asiatici. Dopo aver esposto il fatto che, all'epoca, esisteva ancora un'incertezza complessiva che coinvolgeva l'inizio di quell'impero, nonostante si sapesse che attuarono e conservarono le loro numerose osservazioni astronomiche per un lungo periodo di tempo (dalla fondazione del tempio di Babilonia[26] fino al tempo di Alessandro Magno), Bailly procedette a constatare le sue obiezioni contro la possibilità che furono loro ad inventare l'astronomia. Una prova è che loro utilizzavano un complesso ciclo di seicento anni,[27] a cui Bailly fa riferimento come un ciclo da loro «custodito e frainteso».[12] Era evidente infatti, secondo Bailly, che i Babilonesi l'avessero preservato, mantenendolo inalterato per secoli, dal momento che ciò era citato da Berosso, uno dei loro storici; ed era allo stesso modo evidente che non l'avessero ben compreso del tutto, dal momento che non ne fecero alcun uso per la regolazione del tempo. Potevano aver dunque creato loro un ciclo così complesso senza sapere bene come funzionasse? A Bailly pareva impossibile. Inoltre sembrava anche che i Caldei non avessero mai preso nota delle loro osservazioni astronomiche nei loro libri, poiché Ipparco, che secondo Bailly «aveva esaminato i periodi dei moti delle stelle secondo i Caldei»,[12] non ne parlava: questo poteva essere un segno del fatto che forse non furono loro a fare quelle osservazioni che poi gli furono attribuite.
Quindi Bailly concluse che «necessariamente» questi risultati non erano stati ottenuti dai Caldei, ma che qualcuno glieli aveva dovuti in qualche modo "consegnare"; e questi due fatti - la conoscenza di un periodo di seicento anni e il ritorno di una cometa - non potevano che appartenevano ad astronomia antecedente, in un ottimo stato, e straniera ai Caldei.[12]
Analisi della civiltà indiana
modificaDallo Shaster,[28] dai racconti dei missionari in India, da Guillaume Le Gentil e da altri viaggiatori, Bailly estrasse dei commenti calcolati per lenire Voltaire e contemporaneamente per dimostrare il proprio punto. Bailly definiva la filosofia degli Indiani «spesso saggia e sublime»[29] ma allo stesso tempo ridicolizzava la loro scienza: «Gli indiani contano cinquemila vene nel corpo umano, ma non hanno sviluppato una scienza anatomica in quanto non consentono la dissezione».[30]
Sull'astronomia degli indiani, Bailly era entrato molto nei dettagli nella sua celebre Histoire de l'astronomie ancienne, così le sue osservazioni in quest'opera sull'argomento furono conseguentemente più concise.
Sebbene Bailly riconoscesse agli Indiani, o meglio alla loro casta più importante (ovvero i Brahmani), la paternità delle scienze e soprattutto di quella astronomica, Bailly negava anche a loro come aveva fatto prima con i Cinesi, i Persiani e i Caldei, l'onore di aver inventato l'astronomia. Bailly riprese le osservazioni portate avanti dal suo amico astronomo Guillaume Le Gentil, che presso gli Indiani trovò un'ottima comprensione di metodi e calcoli astronomici. Tra le carte di Joseph-Nicolas Delisle, Bailly aveva trovato due manoscritti indiani inviati da alcuni missionari che contenevano delle tavole astronomiche differenti da quelle che Le Gentil attribuiva agli Indiani. Questa varietà dei metodi e delle tavole non poteva che indicare, per Bailly, la ricchezza della loro scienza. Eppure avevano delle criticità nelle loro teorie sul mondo, pe credevano infatti che:
- la Terra fosse piatta, con una montagna in mezzo che intercettava la luce del sole durante la notte;
- esistessero due draghi, uno rosso e l'altro nero che eclissavano il sole e la luna;
- la luna fosse più distante del sole dalla Terra;
- la Terra poggiasse su una montagna d'oro.
Un popolo che aveva inventato queste assurdità, secondo Bailly, non poteva essere l'autore di quei metodi «dotti e ammirevoli» che Le Gentil e Delisle avevano trovato presso di loro. Un popolo in possesso di così tanti bei sistemi concettuali di fisica, che sarebbero potuti essere fondati solo sulla sperimentazione diretta e sulla riflessione, non poteva contemporaneamente deviare così tanto il loro pensiero scientifico su ipotesi tanto assurde. Nonostante la loro teologia implicasse alcune «tra le nozioni più pure di Dio»[12] secondo Bailly, si erano però mostrati incapace di scoprire queste idee come mostravano le loro leggende e le tradizioni accumulate. Per Bailly era chiaro: non avrebbero potuto mai raggiungere vette di conoscenza così elevate.
Era inoltre un popolo con una lingua, quella sanscrita, «ricca e abbondante ma limitata a pochi individui», i Bramani, i depositari dei «tesori della filosofia e della scienza».[12] Gli indiani, secondo Bailly, «avevano conservato queste trame, ma le avevano anche ricevute». Bailly riservò a Voltaire, in ultima analisi, una prova che considerava «schiacciante»: osava credere, infatti, che i Bramani non fossero originari dell'India, ma che fossero arrivati successivamente in India portando lì la loro lingua originaria (il sanscrito) e tutti i "lumi culturali" stranieri che possedevano, insegnandoli agli Indiani o meglio, ad alcuni di essi, castizzando la società e ponendosi sul gradino sociale più alto.
Sebbene non fossero gli inventori della scienza, i Brahmani per Bailly «erano comunque superiori in termini culturali a tutte le nazioni del mondo», e per questo erano giustamente celebri. I Brahmani, depositari di un'antica filosofia straniera, l'avevano comunicata alle generazioni future fondando, in tal modo, tutta la conoscenza attuale. Loro, scrive Bailly: «sono i nostri maestri ma non sono, tuttavia, gli inventori [della scienza]».[12]
Prove linguistiche
modificaBailly introdusse una nuova argomentazione, soprattutto legata agli Indiani, che gode ancora oggi di maggiore peso di quanto abbia fatto nel XVIII secolo: il fattore del linguaggio. Bailly riconobbe infatti nella lingua sanscrita dei parallelismi con le lingue classiche delle civiltà occidentali. Egli sottolineò l'uso continuato della lingua greca come lingua colta nell'Antica Roma e il continuo uso del latino come lingua colta nella Francia del suo tempo.
«...si un Indien venu à Paris voyait étudier et lire la langue latine, tout à fait différente du langage ordinaire, entièrement inconnue aux trois quarts de la nation, n'aurait-il pas droit d'en conclure que c'est la langue d'un peuple qui n'existe plus, et d'un peuple plus ancien que les Français? Pourquoi n'aurions-nous pas droit de tirer, à l'egard des Indiens, la même conclusion du Sanscrit? [...] On voit donc clairement que les Brames, sortis d'un pays où cette langue était en usage, où ces livres avaient été écrits, les ont apportés dans l'Inde. [...] Je vous ai réservé, Monsieur, pour la dernière, cette preuve qui ne s'est présentée à moi que depuis quelque temps; elle me semble de la plus grande force.»
«... Se un indiano venuto Parigi volesse studiare e leggere la lingua latina, molto diversa dal linguaggio ordinario, interamente sconosciuta ai tre quarti della nazione, sarebbe per caso scorretto concludere che questo fosse la lingua di un popolo che non esiste più, più antico dei francesi? Perché non abbiamo il diritto di trarre, verso gli indiani, la stessa conclusione sul sanscrito? [...] Si vede chiaramente che i bramini, usciti da un paese in cui quella lingua era in uso, dove questi libri sono stati scritti, li hanno portati in India. [...] Vi ho riservato, signore, in ultima analisi, questa prova, che si è presentata a me che per un certo tempo; mi sembra della forza più grande.»
Bailly si chiede se così come il latino, che pur essendo la lingua morta di una civiltà estintasi come quella Romana continuava a permeare la cultura del suo tempo, anche la lingua sanscrita potesse essere dello stesso tipo. La sua ipotesi è, cioè, che anche il sanscrito sia il linguaggio di un popolo anteriore, probabilmente estinto, che aveva colonizzato l'India tramite i Brahmani, integrandosi probabilmente con i popoli che vi abitavano (come i Romani con gli Italici e i barbari), e che però continuavano a conservare la loro antica cultura nella stessa lingua di un tempo.
Questa nozione fu molto probabilmente ispirata a Bailly dall′Histoire naturelle de la parole, ou précis de l'origine du langage et de la grammaire universelle, opera di Court de Gébelin pubblicata a Parigi nel 1776, che si concentrava sull'ipotesi di un'origine universale di tutti i linguaggi antichi. Quest'opera era una sorta di compendio del secondo (Grammaire universelle et comparative) e del terzo volume (Origine du langage et de l'écriture) del Monde primitif scritto dallo stesso Gébelin. Senza specificare la negazione della tradizione biblica secondo cui l'Ebraico antico era il primo linguaggio della storia, tra l'altro di origine divina, in realtà Gébelin lo aveva escluso implicitamente. Il linguaggio aveva origini naturali, era una sorta di "regalo naturale", e quindi la sua evoluzione non poteva che seguire una qualche legge naturale. Su questa teoria Gébelin fondò la sua grammatica comparativa e la sua scienza etimologica. Egli postulava l'esistenza di due tipi di lingue:
- le langues-mères, che inizialmente dovevano essere solo i dialetti derivati da un linguaggio primitivo universale che si era alterato in vari ceppi linguistici una volta diffusosi sulla Terra;
- le langues-filles, che erano le lingue di seconda generazione, discese dalle precedenti.
Egli istanziava ad esempio la lingua proto-germanica nella prima categoria mentre l'inglese, il danese, lo svedese e tutte le altre lingue nordiche nella seconda categoria. Gébelin riconosceva l'esistenza di parole-radici e di famiglie di parole; riteneva che le semplici parole d'uso familiare/quotidiano si evolvessero e cambiassero più rapidamente di quelle apprese in contesti più elevati, e allo stesso modo anche le parole con significati concreti si dovevano sviluppare più rapidamente di quelle con significati più astratti; riconosceva inoltre la forza dell'analogia. In breve, Gébelin aveva concepito una struttura piramidale del linguaggio che stava per essere ampiamente accettata nel XIX secolo.[32] Bailly riconobbe il suo indebitamento nei confronti del lavoro di Gébelin sul linguaggio soprattutto nelle Lettres sur l'Atlantide de Platon. Sebbene Bailly non faccia alcun riferimento testuale a lui nelle Lettres sur l'origine des sciences, Gébelin sembrerebbe comunque essere la sua fonte più probabile anche perché, del resto, Bailly già conosceva e aveva usato il primo volume del Monde primitif per la sua Histoire de l'astronomie ancienne.
Analisi incrociata
modificaLa conclusione insomma è la stessa come per gli Indiani così per i Cinesi, i Persiani e i Caldei: erano tutte civiltà in declino. Ma Bailly addolcì l'irritazione di Voltaire in una certa misura riferendogli comunque che i Bramani:
«C'est avec raison que les sages de la Grèce ont été puiser chez eux la vraie philosophie. Les Brames, dépositaires de cette ancienne philsophie, nous l'ont communiquée; ils ont fondé toutes nos connaissances. Ce sont nos maîtres, et, pour tout dire en un mot, ils sont dignes de votre admiration et de vos éloges.»
«È con la ragione che i saggi della Grecia hanno elaborato presso di essi la vera filosofia. I bramini, custodi di questa antica filosofia, ce l'hanno comunicata; hanno fondato tutte le nostre conoscenze. Sono i nostri maestri, e, per dire tutto in una parola, essi sono degni della sua ammirazione e delle sue lodi.»
Dopo aver provato, con sua grande soddisfazione, che né la Persia, né la Cina, né l'India né la Caldea potevano essere considerate la culla della civiltà, Bailly rivolse di nuovo la sua attenzione a provare la loro comune origine. C'erano degli aspetti tradizionali-religiosi troppo simili secondo Bailly infatti per pensare il contrario. L'abitudine, ad esempio, di versare libagioni agli dei o ai morti, la tradizione mitologica di un diluvio o di un cataclisma universale, quella di un periodo d'oro e di una migrazione preistorica, il culto delle montagne e, in generale, dei luoghi molto alti, oltre che una paura tutt'altro che dimenticata di popoli di giganti che sarebbero vissuti vicino a loro, come sottolineava Bailly, erano aspetti comuni ai Cinesi, ai Tartari, ai Greci, ai Romani, ai Caldei, agli Indiani, e agli Ebrei. In ciascuno di questi popoli, la prima o principale divinità, il loro fondatore, l'oggetto del loro culto, e la fonte della loro filosofia erano sempre la stessa figura. Infine, ciascuno di questi popoli aveva un duplice dogma nel riconoscimento dei «due principi della natura: la materia inerte, e la forza o lo spirito universale che la anima». Tutti questi argomenti sono sviluppati ampiamente nella terza lettera a Voltaire.[34]
Bailly, inoltre, ripeté dall’Histoire de l'astronomie ancienne gran parte delle prove per quanto riguardava la conoscenza puramente scientifica: lo zodiaco, il sistema sessagesimale, i comuni periodi astronomici, e così via. Una nuova argomentazione, puramente accennata in queste lettere, ma sviluppata più ampiamente in una Mémoire sur les mesures longues des Grecs et des Romains,[35] era legata al fatto che numerose antiche misure della circonferenza della Terra erano praticamente identiche, rese in diverse unità di misura.[36]
La quinta e la sesta lettera erano invece dedicate alla tesi che queste somiglianze culturali non fossero il risultato di una comunicazione diretta tra i popoli antichi. Bailly descrisse le difficoltà fisiche di eventuali trasporti per vie terrestre e dei pericolosi viaggi in mare, oltre che le politiche isolazioniste praticate soprattutto dai Cinesi. Egli sottolineò inoltre che la conoscenza scientifica era generalmente di proprietà dei sacerdoti e dei profeti e che, come classe, questi erano i più gelosi dei misteri del loro culto. Egli addusse inoltre come prova la loro quasi totale ignoranza della geografia così come dei fatti più elementari relativi ai loro vicini più prossimi.
«Il me paraît évident que les nations de l'Asie sont encore isolées. Concentrées dans leurs frontières, comme les habitants d'une ville dans leurs murailles, elles n'ont fait la guerre que par des sorties et des excursions, le commerce, que chez leurs voisins, et avec peu d'activité.»
«Mi sembra evidente che le nazioni dell'Asia siano ancora isolate. Concentrate nei loro confini, come gli abitanti di una città all'interno delle loro mura, hanno fatto la guerra solo con gite e viaggi, il commercio, solo con i loro vicini di casa, e con poca attività.»
Anche ammettendo che un certo numero di idee comuni fossero il risultato di rapporti intercorsi tra i popoli, oppure semplicemente dovuti ad idee naturali e universali per tutti gli uomini, Bailly insistette comunque che «servirà sempre per dimostrare la mia conclusione. Queste stesse somiglianze non sono essenziali; sono solo ulteriori elementi di prova. L'esistenza di questo popolo anteriore è dimostrata dalla tabella delle nazioni dell'Asia».[38]
La tavola a cui si riferisce è basata su una teoria ciclica della civilizzazione. Un giovane nazione è una nazione in espansione; l'ambizione spinge al commercio, a guerre di conquista, alla colonizzazione. Quando la nazione matura, inizia a porre la sua attenzione su attività più utili e morali. Bailly scrisse, richiamando lo stesso Voltaire, che: «La vera felicità, la solida fortuna per i popoli e gli uomini è quella di coltivare la pace nel proprio campo e di vivere virtuosamente e tranquilli».[39] Ma questa stessa virtù e questa attenzione all'operosità, alle arti e alle scienze provocava la perdita delle colonie e dell'egemonia militare e la nazione «ritorna al termine dal quale era partita, esausta per lo sforzo di acquisire e mantenere, e rovinata dalla sua stessa grandezza».[40] Intanto le colonie, approfittando dell′impetus dato loro dalla nazione genitrice, si staccano da essa ed incominciano, loro stessi, a seguire lo stesso ciclo.
Bailly offre uno spunto interessante su questa linea di evoluzione di una civiltà, proponendo l'esempio a lui attuale delle Tredici colonie che, con la Rivoluzione Americana in atto, si stavano scindendo dal giogo britannico.
«L'Amérique offrira un jour le tableau que nous venons de tracer. Les naturels secoueront le joug, les colonies se sépareront; il se formera des peuples nouveaux et des états indépendants. Cependant quelques-unes de nos institutions y subsisteront; des usages portés de l'Europe y seront communs à différents peuples; des connaissances de physique et d'astronomie s'y conserveront. Ces connaissances, trop avancées pour des nations naissantes, ou pour celles qui seront indolentes et sans génie, étonneront celui qui les pèsera dans la balance de la philosophie. Pourrait-on avoir tort de conclure alors que ces institutions, ces usages appartiennent à un peuple antérieur? L'Europe sera peut-être aussi inconnue dans l'avenir que le peuple dont je vous entretiens aujourd'hui.»
«L'America offrirà un giorno il quadro che abbiamo appena disegnato. La natura scuoterà il giogo, le colonie si separeranno; si formeranno nuovi popoli e degli stati indipendenti. Tuttavia alcune delle nostre istituzioni rimarranno lì; alcuni usi consumati dell'Europa saranno comuni anche a popoli diversi; varie conoscenze di fisica e astronomia si conserveranno. Queste conoscenze, troppo avanzate per delle nazioni emergenti, o per quelle indolenti e senza genio, sorprenderanno colui che le peserà nella bilancia della filosofia. Potremmo allora avere torto nel concludere che queste istituzioni, queste pratiche appartengono a un popolo precedente? L'Europa forse sarà sconosciuta nel futuro proprio come le persone che ho interrogato oggi.»
Anche se si dovessero formare delle nazioni indipendenti in America la cultura americana sarà indissolubilmente legata a quella europea da cui ovviamente discende. Se in un futuro distopico l'Europa venisse dimenticata e l'America no, nessuna persona d'intelletto potrebbe pensare che le istituzioni, la cultura, le conoscenze mostrate dall'America nel suo primo periodo si fossero auto-costituite in quei luoghi proprio mentre l'America si stava forgiando, ma si giungerebbe alla conclusione che esse appartenessero comunque ad un popolo anteriore (quello Europeo, per l'appunto) che le aveva portate lì colonizzando quel territorio. Poi, solo in un secondo momento, le nuove colonie americane si sarebbero staccate, mantenendo però traccia della cultura europea pregressa nelle loro istituzioni e nelle loro conoscenze.
Era opinione di Bailly che, parallelamente a ciò, l'antico popolo di cui parlava rappresentasse la civiltà nella sua fase di espansione vigorosa, mentre la fondazione della civiltà cinese, di quella indiana, di quella persiana, ed infine quella egiziana rappresentava l'epoca della conquista e della colonizzazione, mentre queste nazioni ai tempi moderni rappresentavano le rovine del loro antico splendore.
Siberia: la culla della civiltà
modificaUna volta dimostrata l'esistenza di un popolo antico progenitore della cultura, ovviamente, una delle preoccupazioni principali di Bailly divenne quella di comprendere in quale zona geografica abitasse. A quale fonte, insomma, si potessero far risalire le grandi scoperte dell'antichità.
Le ultime tre lettere insomma erano un riassunto delle evidenze in favore del posizionamento della culla del genere umano - o almeno la culla della civiltà - nell'Asia centro-settentrionale, in Siberia. Alcune delle argomentazioni più interessanti utilizzate da Bailly furono quelle raccolte dalla grammatica comparata di Court de Gébelin e dalla scienza botanica di Linneo. Bailly ripeté le osservazioni di Gébelin sulla relazione delle radici comuni tra i linguaggi Europei e quegli Asiatici e le osservazioni relative alla deduzione dell'esistenza di una fonte comune.[42]
Da Linneo Bailly invece imparò che un sacco di comuni vegetali (tra cui gli spinaci e i luppoli) e più in particolare i cereali (tra cui frumento, orzo e segale) crescevano spontaneamente in Siberia e furono, presumibilmente, introdotti da lì in Europa. «Questo botanico sapiente – scrisse Bailly – ha concluso che la Siberia potrebbe essere il paese dove uomini sono venuti fuori dopo il diluvio, fino a disperdersi nel mondo, poiché questa regione è quella che ha prodotto i primi alimenti degli uomini civilizzati».[43]
Gran parte dell'erudizione di Bailly è però viziata da speculazioni troppo spinte, come ad esempio nel dichiarare che i grandi depositi di nitro e salnitro in Siberia provassero automaticamente lì la remota esistenza di una densa popolazione.[44] È pur vero, tuttavia, che per le conoscenze dell'epoca Bailly assemblò una serie impressionante di "fatti", che, anche se forse non dimostravano, erano almeno difficili da confutare e parevano scoraggiare chiunque a farlo.
Attribuendo al popolo nordico siberiano le migliori qualità e la più accurata conoscenza tra i vari popoli dell'antichità, Bailly si sforzò di dimostrare, nella sua settima lettera, non solo che questo antico popolo esistesse ma anche che possedeva «il vero sistema dell'universo»[45] oltre che «una filosofia saggia e sublime» e che quindi potesse essere davvero l'antica civiltà di cui parlava.[46] Rimaneva da dare un nome a questa antica civiltà siberiana ma Bailly si occupò di ciò, come aveva già lasciato intendere nell′Histoire de l'astronomie ancienne, nelle Lettres sur l'Atlantide de Platon. Lì riprese la sua idea, tralasciata in quest'opera, secondo cui il popolo nordico perduto fosse Atlantide.
Voltaire, intanto, nel rispondergli continuava a rimanere sulle sue idee: secondo lui i Brahmani erano l'antico popolo cultore delle scienze, e che l'India era la culla dell'umanità. E di più, secondo lui, la quasi totale assenza di cultura scientifica che c'era nell'India contemporanea non poteva essere affatto considerata una prova del fatto che anche in antichità non esistesse. Bailly, rincarando la dose, affermava invece che ciò che arguiva Voltaire aveva poco senso, perché lo stesso si poteva dire del popolo nordico a cui lui stesso faceva riferimento:
«Les tigres du nord, qui ont dévasté le midi de l'Asie, n'avaient sans doute ni quart de cercle ni astrolabe; mais observez, je vous supplie, Monsieur, que quand je dis que les peuples de Tartarie ont été éclairés, j'ai en vue ceux qui existaient trois à quatre mille ans avant les barbares dont vous parlez. Nous pourrions également conclure que la Grèce n'a eu ni Sophocle ni Démosthène, parce que les Turcs qui la possèdent sont féroces, ignorants et qu'ils dévasteraient l'Europe si on les laissait faire.»
«Le tigri del Nord, che hanno devastato il sud dell'Asia, non avevano probabilmente né il quadrante né l'astrolabio; ma guardi, la prego, signore, che quando dico che i popoli della Tartaria erano illuminati, ho in mente quelli che esistevano tre o quattro mila anni prima che i barbari di cui lei parla. Si potrebbe anche concludere allora che la Grecia non aveva né Sofocle né Demostene, solo perché i turchi che la possiedono oggi sono feroci, ignoranti e che devasterebbero l'Europa se la si lasciasse loro.»
La nona lettera non fu che un po' di proselitismo gratuito verso Mairan. Voltaire aveva commesso l'errore di dire che non aveva mai letto l'opera di Mairan, Feu central:
«L'idée que notre pauvre globe avait été autrefois plus chaud qu'il n'est, et qu'il s'était refroidi par degrés, me faisait peu d'impression. Je n'ai jamais lu le Feu central de M. de Mairan; et depuis qu'on ne croit plus au Tartare et au Phlégéton, il me semblait que le feu central n'avait pas grand crédit.»
«L'idea che il nostro povero vecchio mondo fosse più caldo di quello che è, e che si è raffreddato poco a poco, mi ha fatto poca impressione. Non ho mai letto il Feu central di Mairan; e dal momento che non crediamo più né nel Tartaro né nel Flegetonte, allora mi sembrerebbe che il fuoco centrale non abbia poi così tanto credito.»
Il fatto che Voltaire non avesse mai letto quest'opera era in realtà abbastanza improbabile, considerando i contatti molto stretti tra di loro durante il "periodo Newtoniano" di Voltaire a Cirey[48] e l'entità della loro corrispondenza tra il 1724 e il 1765.[49]
Mairan, che era stato Segretario Perpetuo dell'Accademia francese delle Scienze, aveva dimostrato che la temperatura saliva quanto più ci si avvicinava verso il centro della Terra. Inoltre fu il primo a misurare con precisione il "calore proprio", le feu central, della Terra, mostrando che esso era indipendente dal calore ricevuto dal Sole.
Sia come sia, Bailly si impegnò comunque a descrivere nelle Lettres «questo bel sistema, o piuttosto questa grande verità» scoperta da Mairan, come aggiunta alla teoria di Buffon sull'origine della Terra, il che costituì la sostanza della decima e ultima lettera.
Se andava accettata la legge della natura come prevista da Buffon e Mairan - il continuo e universale processo di crescita e di decadimento, di creazione e distruzione - e se la loro spiegazione della Terra primordiale come di una massa infuocata si dovesse accettare così com'era, allora il raffreddamento della superficie terrestre ne diventava, semplicemente, una naturale conseguenza. Bailly lo spiegò con un parallelismo incalzante: «La mia candela è utilizzata per illuminarmi; il fuoco del mio caminetto è spento, a meno che non viene mantenuto; e poiché non ha senso che il fuoco interiore della Terra si rinnovi, allora concludo che un giorno sarà distrutto un giorno».[50]
La paleontologia sembrava tra l'altro offrire varie conferme della teoria di Buffon, e Bailly prese ad esempio la scoperta di Leibniz dell'esistenza di piante tropicali in Germania[51] e i resti di elefanti (o mammut) trovati nell'Irlanda del Nord, Canada e Siberia.[52] È curioso come Bailly fosse quasi nel giusto era per molti aspetti: egli scartò le spiegazioni miracolose di questi fenomeni[53] a favore di una spiegazione più semplice, che era il cambiamento di temperatura. Bailly avrebbe fatto bene a lasciare che il suo caso riposasse con il peso dei suoi argomenti; in effetti fu forse indelicato prendere Buffon più che Voltaire come il vero modello di razionalismo scientifico, quando affermava: «È molto meglio allinearsi con il signor Buffon».[54] Ci si potrebbe chiedere come poté Bailly, che per formazione era un astronomo, arrivare a disquisire su argomenti così lontani dalla sua materia come fa nelle sue Lettres sur l'origine des sciences. La spiegazione è relativamente semplice, e Bailly aveva offerto lui stesso qualche anno prima la spiegazione, dicendo che la sua fosse un'apologia per la metafisica di Leibniz:
«Comment [...] a-t-il pu se livrer à ces méditations infructueuses? Comment la philosophie ne l'a-t-elle pas arrêté? C'est que la philosophie a ses degrés et ses âges; c'est qu'elle est d'abord incertaine dans sa marche; le désir de tout découvrir l'écarte de la vraie route; et quand l'imagination lui offre ses systèmes, elle en fait l'essai comme d'un instrument propre à chercher la vérité.»
«Come [...] è stato in grado di indulgere in queste meditazioni infruttuose? In che modo la filosofia non si è arrestata? Il fatto è che la filosofia ha i suoi gradi e le sue età; il fatto è che prima è incerta nella sua marcia; la voglia di scoprire la devia dalla rotta; e quando l'immaginazione gli offre i suoi sistemi, essa li sperimenta come strumento per cercare la verità.»
Bailly era stimolato dal desiderio di sapere tutto; più volte lo si ritrova a cercare la risposta più facile, la formula, la chiave misteriosa; ad esempio lo fa: nell'identificazione delle leggende di Giano e della Fenice; nell'identificazione di Buddha, Thot, Mercurio, e Zoroastro; e nella riconciliazione dei periodi astronomici, delle misure lineari, della lingua, dei costumi e nelle leggende dei popoli antichi.
Un'ulteriore prova: la fenice
modificaAnche le festività astronomiche più celebri dell'antichità, pensava Bailly, dovevano aver avuto la loro origine alle alte latitudini del nord; quella, per esempio, di Adone (che alludeva evidentemente al sole) che passò sei mesi sulla Terra con Venere e sei mesi nell'Ade con Proserpina, poteva essere inventata solo da una "razza iperborea", poiché in Siria, nelle terre fenicie gli inverni erano insolitamente brevi e miti; ed è solo al polo che l'assenza, ovvero la "morte", del sole ha una continuità di sei mesi.
Come ulteriore testimonianza alla propria asserzione, Bailly addusse una favola della fenice raccontata dagli Egizi secondo la quale un giorno arrivò un essere tutto ammantato di pennacchi d'oro e cremisi, giunto da un "paese delle tenebre" «per morire in Egitto, e per risorgere di nuovo dalle sue ceneri nella città del Sole, presso l'altare di quella divinità».[56] Attraverso la fenice. pensava Bailly, fu evidentemente designata la rivoluzione solare, una famosa tecnica astrologica; e l'età assegnata alla fenice lo provava, in quanto secondo il mito ammontava a 1461 anni. «Bisogna dire che è lo stesso periodo di tempo di un ciclo sotiaco, ovvero il tempo corrispondente ad un "grande anno solare" egizio». Per Bailly comunque la leggenda non poteva essere nata lì: infatti il sole non scompariva mai per periodi lunghi in Egitto, anzi era sempre molto «vigoroso», «una circostanza derivante dalla sua altezza rispetto alla linea dell'orizzonte». Questo invece non era il caso dei climi nordici, dove «il sole scompariva più o meno per un anno», ovvero un tempo considerevolmente lungo. Lì la partenza e il ritorno della luce poteva suggerire l'idea di una morte reale e di una reale rinascita; da qui la vicissitudo alternata tra lutto e gioia». Bailly pensava dunque che il mito della fenice fosse dunque nato a nord.
Anzi, Bailly va molto più avanti: per lui il "paese delle tenebre" a cui il mito faceva riferimento era la Siberia, e lì molto probabilmente la favola si sarebbe originata; infatti nell'Edda, insieme di libri mitologici norreni, era presente una storia molto simile. Parlava di un uccello, la cui testa e il cui torace erano del colore del fuoco, mentre la coda e le ali erano di un celeste chiaro; esso visse per trecento giorni, e seguendo tutti gli uccelli di passaggio, volò in Etiopia, là fece il suo nido, e bruciò con le sue uova; la cenere però produsse un piccolo essere rosso, che, dopo aver recuperato le ali e la forma da uccello, riprese il suo volo per il nord.
Le circostanze vitali della fenice, secondo Bailly, attraverso la specificazione dei giorni di vita della fenice, precisavano la zona geografica in cui la fiaba fu prodotta. «Sicuramente — scrive Bailly — al di sotto della latitudine dei 71°, dove il sole è assente per sessantacinque giorni all'anno».[57] La leggenda della fenice doveva dunque provenire, per Bailly, dal Golfo dell'Ob', una regione in cui era lecito supporre che il sole fosse assente proprio per sessantacinque giorni all'anno.
Giudizi successivi
modificaLa maggior parte delle informazioni su cui si basa il sistema di Bailly erano interamente o parzialmente inesatte; egli, inoltre, accettava ciecamente la stima che gli stessi Cinesi avevano fatto sulla loro antichità, che poi si era dimostrata essere alquanto esagerata;[58] egli generalizzò dei fatti particolari senza giustificazione, come ad esempio la settimana costituita da sette giorni per tutti gli antichi;[59] e trasse conclusioni errate da fatti reali che, in epoche più moderne, hanno ricevuto spiegazioni soddisfacenti - ad esempio la variazione di temperatura alle latitudini settentrionali oppure la geotermia relativamente al calore interno della Terra.
L'intero tessuto delle sue argomentazioni dava modo alle rispettive parti che lo costituivano di poter essere controllato. Una visione più moderna della teoria di Bailly è ben riassunta ne L'Astronomie, évolution des idées et des méthodes, opera di Guillaume Bigourdan scritta nel 1911:
«L'hypothèse de Bailly est insoutenable, et tout concourt à montrer que, pour l'astronomie comme pour bien d'autres sciences, l'étude en a été surtout imposée à l'origine par des besoins d'ordre pratique, par le désir de satisfaire les nécessités ou les commodités de la vie. Dès les premiers âges de la pré-histoire, en effet, l'homme a été forcé de porter son attention sur les phénomènes célestes qui règlent le renouvellement périodique de ses besoins, l'ordre de ses occupations, la succession des saisons; la nécessité de diviser le temps imposait à l'homme l'etude du ciel; et c'est pour cela qu'on trouve les premières notions d'astronomie chez tous les peuples.»
«L'ipotesi di Bailly è insostenibile, e si combina per dimostrare che, per l'astronomia così come per molte altre scienze, gli studi originariamente sono stati in gran parte imposti da esigenze pratiche, dal desiderio di soddisfare le necessità o le comodità della vita. Sin dalle prime fasi della preistoria, infatti, l'uomo è stato costretto a rivolgere la sua attenzione ai fenomeni celesti che regolano il rinnovo periodico dei suoi bisogni, dei suoi affari, il susseguirsi delle stagioni; la necessità di dividere il tempo impose all'uomo lo studio del cielo; ed è per questo che troviamo delle nozioni base d'astronomia in tutti i popoli.»
Eppure giudicato non attraverso le conoscenze contemporanee, il libro di Bailly rimaneva di notevole erudizione per la sua epoca ed era una sintesi provocatoria di numerosi dati di recente scoperta. Joseph de Guignes, famoso orientalista, aveva aperto il dibattito sul tema con la sua Mémoire dans lequel su Prouvé que les Chinois sont une colonie Égyptienne, pubblicata a Parigi nel 1759. La sua tesi era stata confutata da Cornelis de Pauw nelle Recherches philosophiques sur les Égyptiens et les Chinois, pubblicate nel 1773, un lavoro che aveva suscitato il plauso dei philosophes e le ire dei gesuiti a causa del modo dispregiativo con cui de Pauw trattava le Lettres édifiantes et curieuses. Il mondo culturale che stava leggendo Court de Gébelin, de Guignes e de Pauw non poteva non essere incuriosito anche dal contributo di Bailly. Lo scrittore svizzero Jacques-Henri Meister trovò nel lavoro di Bailly «uno spirito eccellente, di conoscenze raramente riunite, e la logica più seducente e ingegnosa del mondo».[61] A dire il vero, però, Jean Baptiste d'Alembert e Nicolas de Condorcet ridicolizzarono Bailly crudelmente, ma ciò potrebbe anche essere stato inevitabile dopo lo scontro aperto presso l'Accademia delle Scienze.
Uno degli effetti della pubblicazione delle Lettres sur l'origine des sciences fu una polemica dell'abate Nicolas Baudeau intitolata Mémoire à consulter pour les anciens Druides: contre M. Bailly, pubblicata a Parigi nel 1777. Baudeau disprezzava e denigrava le "razze" dell'Asia e cercò di dimostrare la maggiore antichità della cultura dei popoli d'Europa. Egli scrisse che:
«Bailly soit condamné à composer et à publier incessament un troisième ouvrage, dont il aura soin de lire les essais dans les assemblées publiques de l'Académie des Sciences, lequel ouvrage sera aussi savant, aussi curieux, aussi bien ecrit que les deux premiers... ; et qu'en ice lui soit contenue la réparation d'honneur la plus authentique aux peuples gaulois, celto-scythes, hyperboréens, illyriens ou phrygiens d'Europe et à leurs druides...»
«Bailly è condannato a comporre e a pubblicare incessantemente un terzo libro, dove avrà cura di leggere i saggi nelle assemblee pubbliche dell'Accademia delle Scienze, il cui libro sarà intelligente, curioso e ben scritto come i primi due... ; e [all'interno] vi sarà contenuta la riparazione più autentica sull'onore ai Galli, ai Celto-Sciti, agli Iperborei, agli Illiri o ai Frigi d'Europa e ai loro druidi...»
Baudeau criticava Bailly per aver in qualche modo esaltato altri popoli, soprattutto di matrice asiatica, dimenticandosi degli antichi popoli europei. Un biografo di Bailly, Simon-Pierre Mérard de Saint-Just suggerisce che Baudeau non era da prendere sul serio, o almeno fa intendere che Bailly non lo prendeva sul serio. «Bailly non rispose al monaco sconsacrato di Chancelade se non con [...] il silenzio del disprezzo».[63] Questo non è del tutto vero in realtà, perché Bailly si preoccupò comunque di rispondere. Bailly infatti prese comunque atto della discussione sui Druidi nell′Histoire de l'astronomie moderne[64] e nelle Lettres sur l'Atlantide de Platon, dove scrisse:
«[Les Gaulois] m'ont intenté un procès, à moi, Monsieur, qui entends peu les affaires et surtout la chicane. Leurs Druides ont choisi un excellent avocat, tel que je l'aurais choisi moi-même, si j'avais eu une cause à défendre. Il a plaidé avec chaleur pour eux, avec politesse pour moi; j'eusse été séduit si je pouvais l'être. [...] Cependant, Monsieur, tout le monde peut avoir raison. [...] Je conçois [...] que nos bons Gaulois sont descendus comme les autres peuples de la patrie commune. Les Druides leur chantaient des vers semblables à ceux qu'Orphée chanta jadis dans la Grece; ils furent instruits, comme les Grecs, par ces traditions antiques. Mais j'avoue encore que les uns n'ont pas été si favorisés que les autres.»
«[I Galli] hanno intentato una causa a me, signore, che comprendo poco gli affari e in particolare i cavilli. I Druidi hanno scelto un ottimo avvocato, come l'avrei scelto io stesso, se avessi avuto una causa da difendere. Egli ha supplicato con calore per loro, con gentilezza per me; sarei stato sedotto se avessi potuto esserlo. [...] Tuttavia, signore, tutto il mondo può avere ragione. [...] Capisco [...] che i nostri buoni Galli discendono come gli altri popoli della patria comune. Gli stessi Druidi hanno cantato dei versi simili a quelli che Orfeo cantò in Grecia; sono stati educati, come i Greci, a queste antiche tradizioni. Ma devo comunque ammettere che questi [Druidi] non sono stati così favoriti come gli altri.»
Anche se non si convertì mai alle idee di Baudeau, Bailly comunque pagò il crescente interesse alla preistoria delle nazioni del Nord Europa; in tal modo non si può dire che la critica di Baudeau fu del tutto priva di effetto.
Voltaire doveva aver ricevuto la sua copia delle Lettres sur l'origine des sciences direttamente dalla stampa, come lui stesso riconobbe in una lettera del 27 febbraio 1777. È difficile dire se si fosse preso la briga di leggere l'opera prima di rispondere in questa lettera, anche perché del resto nella sua lettera ribadisce semplicemente i suoi dubbi. «Capisco che è possibile che gli antichi abbiano istruito gli Indiani. - scrisse Voltaire – Ma non dovrebbe essere consentito di metterlo in dubbio, per il fatto che non abbiamo alcuna notizia di questo antico popolo?».[66] La prova che Voltaire stesse in effetti cominciando a stancarsi della discussione è suggerita dalla citazione all'inizio della sua lettera, "Tradidit mundum disputationi eorum",[67], (in italiano: "consegnò il mondo al dibattito tra loro") e il suo commento "impertinente" sulla teoria di Mairan:
«Je vous avoue que je n'avais lu le système de M. de Mairan. [...] J'étais seulement très persuadé qu'il y a partout du feu. Ignis ubique latet, naturam amplectitur omnem. Les artichauts et les asperges que nous avons mangés cette année au mois de janvier, au milieu des glaces et des neiges, et qui ont été produits sans qu'un seul rayon du soleil s'en soit mêlé, et sans aucun feu artificiel, me prouvaient assez que la terre possède une chaleur intrinsèque très forte. Ce que vous en dites dans votre neuvième lettre m'a beaucoup plus instruit que mon potager.»
«Confesso di non aver letto il sistema del signor Mairan. [...] Ero solamente molto fiducioso che esistesse il fuoco ovunque. Ignis ubique latet, naturam amplectitur omnem. I carciofi e gli asparagi che abbiamo mangiato quest'anno nel mese di gennaio, in mezzo alla neve e al ghiaccio, che sono stati prodotti senza che un singolo raggio di sole fosse coinvolto, e senza alcun fuoco artificiale, dimostrano sufficientemente che la Terra ha un elevato calore intrinseco. Quello che dici nella tua nona lettera mi ha istruito molto più del mio stesso giardino.»
Il giorno dopo la sua lettera a Bailly, Voltaire scrisse in un tono scherzoso a Condorcet: «Siamo stati lusingati del fatto che l'illustre segretario [Mairan] ci avvertisse incessantemente del giorno e dell'ora in cui il nostro globo di vetro sarebbe andato in fumo, e quando la cometa che, una volta prodotta la terra, sarebbe tornata nuovamente a distruggerla»[69] alla quale Condorcet rispose con un po' di sfrontatezza: «Ignoro assolutamente se la terra sarà congelata o se sarà ridotta in polvere per l'impatto di una cometa, se sarà bruciata da un'esplosione del suo fuoco centrale, o se tornerà nel seno del sole. Non ci sono che Buffon e il frère illuminé Bailly a conoscere tutte queste belle cose».[70] La stessa opinione fu espressa da D'Alembert in una lettera a Voltaire:
«[...] je ris [...] d'un gros volume de lettres qui viennent de vous être addressées, et où l'on nous donne le feu central et le refroidissement de la terre comme des idées comparables au système de la gravitation. Supplément de génie que toutes ces pauvretés; vains et ridicules efforts de quelques charlatans, qui, ne pouvant ajouter à la masse des connaissances une seule idée lumineuse et vraie, croient l'enrichir de leurs idées creuses et nous persuader de l'existence d'un peuple qui nous a tout appris, excepté son histoire et son nom. Adieu, mon cher maître. En lisant tout ce qui s'imprime aujourd'hui (qu'heureusement pour moi je ne lis guère) je pourrais dire, comme Pourceaugnac "Jamais je n'ai été soûl de sottises."»
«[...] Io rido [...] di un grande volume di lettere [quello di Bailly] di cui siete il destinatario, e dove il fuoco centrale e il raffreddamento della Terra sono trattati come idee paragonabili al sistema della gravitazione. Supplemento di genio che tutte queste forme di povertà; vani e ridicoli sforzi di alcuni ciarlatani, i quali, non potendo aggiungere all'insieme delle conoscenze una brillante idea vera, credono di arricchirlo con le loro idee vuote e ci persuadono dell'esistenza di un popolo che ha ci ha insegnato tutto, tranne la sua storia e il suo nome. Addio, mio caro signore. Leggendo tutto ciò che viene stampato oggi (che per mia fortuna quasi non leggo) potrei dire, come Pourceaugnac "Non sono mai stato ubriaco di schiocchezze".»
Ciò accadde un anno prima che Bailly avesse di nuovo qualcosa da dire sulla questione, attraverso le Lettres sur l'Atlantide de Platon[72], pubblicate prima che Voltaire, ormai morto, potesse venire a sapere della loro esistenza.
Il culto dei cicli perfetti, l'interpretazione scientifica del mito, l'identificazione dei leader storici e leggendari, dei legislatori, dei filosofi e delle divinità, e la convinzione della remota esistenza sulla Terra di una civiltà con abilità perfezionate ed una "filosofia sublime" resero Bailly l'astronomo più affine a Gébelin lo storico.
Entrambi, in qualche modo, sono profeti del ritorno dell'età dell'oro o dell'apparizione di una nuova epoca per rivaleggiare con quella vecchia. Bailly si chiese ironicamente: «La resistenza che si può fare al parere di un antico stato dalla scienza avanzata, è nata da un sentimento di gelosia?».[73] Ma Court de Gébelin non fu l'unico scrittore le cui opere erano parallele a quelle di Bailly.[74] Anche Jérôme Lalande e Charles-François Dupuis stavano lavorando ad una spiegazione scientifica del mito e delle leggende verso una riconciliazione dei diversi ordini di conoscenza, parti di ciò che Dupuis chiamava «una forza unica, il potere sovrano».[75] Se, a differenza di molti dei philosophes, Bailly non associava la filosofia naturale degli antichi con la rivelazione divina, eppure non preclude questa possibilità. Bailly infatti scrisse: «Quando si è privi delle luci della rivelazione, possiamo raggiungere una maggiore e più vera idea dell'Essere Supremo rispetto a quella di questa filosofia?».[76] Ma, come molti dei suoi contemporanei, anche Bailly scelse di mantenere separati la religione e il razionalismo. «Non cito affatto le Sacre Scritture, perché essa ordina di credere mentre qui si tratta di dimostrare, o almeno di persuadere».[77] Era chiaro, ormai, che Bailly era pronto per la dottrina extra-religiosa della massoneria, visto che di lì a poco sarebbe entrato a far parte della Loggia delle Nove Sorelle.
Note
modifica- ^ a b c Edwin Burrows Smith, Jean-Sylvain Bailly: Astronomer, Mystic, Revolutionary (1736-1793) (1954, American Philosophical Society).
- ^ a b François Arago, Biographie de Bailly.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 1-3; Voltaire 49: 453.
- ^ La corrispondenza di Grimm per il marzo 1777 si riferisce alle Lettres come "pubblicate da poco". L'ultima lettera di Voltaire, del 27 febbraio, riconosceva la ricezione del lavoro da parte del filosofo di Ferney. Le Lettres furono pubblicate a Londra e a Parigi senza privilegi.
- ^ a b c Edwin Burrows Smith, Jean-Sylvain Bailly: Astronomer, Mystic, Revolutionary (1736-1793) (1954, American Philosophical Society); p. 461.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 6-7; Voltaire 49: 488.
- ^ Voltaire, 49: 500, nota.
- ^ a b Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 257-258.
- ^ Voltaire, 49: 510.
- ^ Op. cit., 345.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 15.
- ^ a b c d e f g h i British Critic, articolo XIV: Letters upon the Atlantis of Plato and the Ancient History of Asia.
- ^ Modificate da Gobien, du Halde e altri, Parigi, 1702-1776.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 32.
- ^ Secondo la tradizione cinese fu lui a fondare l’astronomia, sintetizzando tutte le conoscenze ereditate e accumulate dalle generazioni precedenti. Sotto la sua direzione, e assieme a lui, lavoravano un gran numero di collaboratori che si occupavano di ricerche scientifiche e filosofiche. Le ricerche erano rivolte a scoprire in primo luogo le cause dei vari fenomeni fisici, ed in seguito si cercava di indirizzare tutte queste cause ad una causa prima; questa causa prima fu ricercata ad ogni livello per anni ed anni. Fu un periodo di analisi, critiche ed esami minuziosi di tutte le conseguenze ottenute. I metodi impiegati si servivano di una sperimentazione induttiva primitiva.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 32-33.
- ^ Ibid., 33.
- ^ a b Ibid., 34.
- ^ a b c d Ibid., 35.
- ^ a b Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, II lettera.
- ^ Le evidenze archeologiche successive hanno chiarificato che la città risale al VI secolo avanti Cristo.
- ^ Eusebio di Cesarea, Chronicon
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 43-44.
- ^ Probabilmente Bailly qui voleva riferirsi a Jamshid, figura persiana leggendaria.
- ^ a b Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 44.
- ^ Non si capisce a quale tempio Bailly faccia riferimento.
- ^ Era il ciclo Naros, utilizzato nel calendario Caldeo, che consisteva in seicento anni.
- ^ Un trattato di istruzione, autorevole tra gli Indiani; un libro sulle istituzioni; in particolare, spiega anche il Veda.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 51.
- ^ Ibid., 73.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 85-89.
- ^ Edwin Burrows Smith, Jean-Sylvain Bailly: Astronomer, Mystic, Revolutionary (1736-1793) (Philadelphia, 1954), p. 462.
- ^ Ibid., 89-90.
- ^ Bailly, Lettre sur l'origine des sciences, 132.
- ^ Bailly scrisse che questa mémoire fu «letta nella seduta pubblica dell'Accademia delle Scienze il 17 aprile di quest'anno [1776]»; ma non fu pubblicata nelle Mémoires de l'Académie royale des Sciences del 1776, e non vi è menzione di tale documento in Demours, Table générale.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 148-149.
- ^ Ibid., 181.
- ^ Ibid., 203.
- ^ Ibid., 189. L'eco degli scritti di Voltaire è frequente in queste lettere e non c'è dubbio che sia intenzionale.
- ^ Ibid., 189. La Cina è citata come esempio perfetto di questo ciclo.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 198-199.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 232.
- ^ Ibid., 237-238. Il riferimento è un passaggio di Linneo citato da August Ludwig von Schlözer, Probe russischer Annalen, 45-46, Bremen e Göttingen, 1768.
- ^ Ibid., 240-241.
- ^ Ibid., 212.
- ^ Ibid., 205.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 13.
- ^ Voltaire scrisse l′Essai sur la nature du feu et sur sa propagation per una competizione all'Accademia francese delle scienze per il 1738. La donna che amava, Émilie du Châtelet competeva per lo stesso premio, discutendo nella sua monografia a proposito del feu central. Fu in questo periodo che Voltaire scrisse a Mairan: «Noi la studiamo. [...] Le materie che noi trattiamo qui semplicemente raddoppiano la nostra stima per lei». Nel 1741, Mairan indirizzò a Mme du Châtelet la Lettre à Mme *** sur la question des forces vives.
- ^ Mairan fu uno dei primi ad avere una corrispondenza epistolare con Voltaire, e lo scambio di lettere continuò fino alla morte di Mairan. Voltaire scrisse il 1º febbraio 1734: «I vostri libri sono come voi, saggi, informativi e piacevoli». Il 3 dicembre 1749 Voltaire scrisse specificamente: «Ho letto il vostro Glace».
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 310.
- ^ Ibid., 314-320.
- ^ Ibid., 320-327.
- ^ Ibid., 324-326.
- ^ Ibid., 326.
- ^ Op. cit., 1: 231.
- ^ Lettres sur l'origine des sciences, p. 249
- ^ Lettres sur l'origine des sciences Volume II, p. 219
- ^ Secondo i calcoli cinesi Fu-Hi sarebbe vissuto circa verso il 2852 a.C., ma gli storici moderni individuano la fondazione della prima dinastia, la dinastia Chou, verso il 1122 a.C..
- ^ Guillaume Bigourdan scrisse: «Non è assolutamente vero, tuttavia, non la troviamo che tra gli ebrei, da dove poi passò gli alessandrini. Al contrario, quasi tutti i popoli antichi, come gli Egizi, i Greci, i Cinesi ecc... contavano con periodi di dieci giorni o decadi». (Bigourdan, L'Astronomie, évolution des idées et des méthodes, 60.)
- ^ Op. cit., 1-2.
- ^ Grimm, Correspondance 11: 432 (Marzo, 1777).
- ^ Citata in: Grimm, Correspondance, 11: 508 (agosto 1777).
- ^ Op. cit., 53
- ^ Op. cit., 1: 294-298
- ^ Op. cit., p. 326-332
- ^ Bailly, Lettres sur l'Atlantide de Platon 6. Questa lettera appare anche con lievi varianti nella corrispondenza di Voltaire: 50; 194.
- ^ Ecclesiastes 3: 11
- ^ Bailly, Lettres sur l'Atalntide de Platon, 7-8.
- ^ Voltaire, 50: 197.
- ^ Ibid., 199.
- ^ Ibid., 201.
- ^ Nourrisson scrisse che le Lettres sur l'Atlantide seguirono le Lettres sur l'origine des sciences senza alcuna pausa; difatti c'era un vuoto di soli sedici mesi tra la composizione dei due libri.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 206-207.
- ^ I primi tre volumi del Monde primitif precedono l'interesse di Bailly verso l'antichità; gli ultimi cinque apparvero negli stessi anni in cui questi stava scrivendo la tetralogia sulla storia dell'astronomia e i due volumi di lettere a Voltaire.
- ^ Mémoires sur l'origine des constellations et sur l'explication de la fable in Lalande, Astronomie 4: 547.
- ^ Bailly, Lettres sur l'origine des sciences, 208.
- ^ Ibid., 105.