Organizzazione militare dei Germani
Per organizzazione militare dei Germani si intende l'insieme delle forze che componevano gli eserciti delle popolazioni germaniche, comprendenti l'organizzazione delle loro unità, la loro gerarchia interna di comando, la tattica, l'armamento e la strategia, dalle guerre cimbriche (fine del II secolo a.C.) a quelle marcomanniche (metà del III secolo d.C.). Dopo questo periodo si generarono tutta una serie di confederazioni di popolazioni (dagli Alemanni ai Franchi, Goti e Sassoni), ciascuna con una propria organizzazione interna militare, che andrà analizzata singolarmente e separatamente.
Organizzazione militare dei Germani | |
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Rappresentazione pittorica di un assalto di popolazioni germaniche all'esercito romano. | |
Descrizione generale | |
Attiva | II secolo a.C. - III secolo d.C. |
Nazione | Germani |
Servizio | Forza armata |
Tipo | forze armate di fanteria, cavalleria e navali |
Ruolo | Difesa del territorio |
Dimensione | Variante |
Nemici storici | Impero romano |
Battaglie/guerre | Invasione della Germania sotto Augusto Spedizione germanica di Germanico Invasioni barbariche |
Comandanti | |
Degni di nota | Ariovisto Arminio Maroboduo Vannio Ballomar Cniva |
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Contesto storico
modificaLe origini
modificaIn età antica era diffusa l'ipotesi, riferita da Publio Cornelio Tacito, nel De origine et situ Germanorum, secondo cui i Germani erano un popolo indigeno della Germania stessa.[1] Sempre secondo lo storico romano, si consideravano discendenti di Tuistone, divinità della terra, da dove i suoi nipoti, figli di suo figlio Manno, sarebbero stati i capostipiti delle tre stirpi germaniche: quella degli Ingevoni, degli Istevoni e degli Erminoni. Secondo altre tradizioni invece, i figli di Tuistone erano più numerosi, avendo così dato origine ad altre tribù: i Marsi, i Suebi, i Gambrivi ed i Vandali.[2]
In realtà secondo la ricerca archeologica moderna, i Germani costituirebbero il risultato dell'indoeuropeizzazione, della prima metà del III millennio a.C., nella Scandinavia meridionale e nello Jutland da parte di genti provenienti dall'Europa centrale, già indoeuropeizzata nel corso del IV millennio a.C..[3] A metà dell'VIII secolo a.C., i Germani risultano attestati lungo l'intera fascia litoranea che va dall'Olanda alla foce della Vistola. La pressione continuò nei secoli successivi, non come un movimento unitario e unidirezionale ma come un intricato processo di avanzamenti, retrocessioni e infiltrazioni in regioni abitate anche da altri popoli. Intorno al 550 a.C. raggiunsero l'area del Reno, imponendosi sulle preesistenti popolazioni celtiche[4] e in parte mescolandosi a esse (è considerato misto il popolo di confine dei Belgi).
Dal V al I secolo a.C., durante l'Età del ferro, i Germani premettero costantemente verso sud, venendo a contatto (e spesso in conflitto) con i Celti e, in seguito, con i Romani. Nell'area di contatto con i Celti, lungo il Reno, i due popoli entrarono in conflitto. Sebbene portatori di una civiltà più articolata, i Galli subirono l'insediamento di avamposti germanici nel loro territorio, che diedero origine a processi di sovrapposizione tra i due popoli: insediamenti appartenenti all'uno o all'altro ceppo si alternavano e penetravano, anche profondamente, nelle rispettive aree d'origine. Sul lungo periodo, a uscire vincitori dal confronto furono i Germani, che qualche secolo più tardi sarebbero dilagati a occidente del Reno. Identico processo si sarebbe verificato, a sud, lungo l'altro argine naturale alla loro espansione, il Danubio.[5]
Germani e Romani (fine del II secolo a.C. - metà del III secolo d.C.)
modificaI Germani vennero a contatto con Roma fin dall'ultimo scorcio del II secolo a.C., con le incursioni di Cimbri e Teutoni in territorio romano. I due popoli germanici mossero dallo Jutland e penetrarono in Gallia, spingendosi prima in Pannonia, poi nel Norico (dove batterono un'armata romana a Noreia nel 113 a.C.), ed infine nella provincia romana della Gallia Narbonense, di recente costituzione. Ma le incursioni continuarono per circa un decennio fino a quando, dopo alcuni insuccessi da parte dei generali romani accorsi per fermarli, fu necessario l'intervento del console Gaio Mario. Le due popolazioni germaniche furono annientate in due separate battaglie ad Aquae Sextiae (102 a.C.) e a Vercellae (101 a.C.). Roma era ora salva da una possibile invasione germanica.
Al tempo della conquista della Gallia condotta da Cesare (58-50 a.C.), nuovi conflitti si accesero lungo il Reno, confine tra i Celti e i Germani. Fin dal 72 a.C. un gruppo di tribù germaniche, capeggiate dai Suebi di Ariovisto, aveva passato il fiume e tormentava con le sue scorribande il territorio gallico, infliggendo anche una dura sconfitta ai Galli presso Admagetobriga (60 a.C.). Sembra infatti che Ariovisto avesse varcato il Reno, insieme alle popolazioni suebe provenienti dalle vallate dei fiumi Neckar e Meno.[6] I Galli invocarono allora l'aiuto di Cesare, che sconfisse definitivamente Ariovisto presso Mulhouse (58 a.C.).[7]
La disfatta di Ariovisto[8] non fu comunque sufficiente ad arrestare la pressione esercitata in quegli anni dai Germani sui Galli. Pochi anni più tardi Cesare ebbe anche modo di costruire un ponte sul Reno e di passarlo, portando devastazione nei territori germani a est del fiume nel corso di due differenti campagne nel 55[9][10] e 53 a.C..[11] Si racconta, infatti, che spinte alle spalle dalla pressione dei Suebi, le tribù germaniche degli Usipeti e dei Tencteri avevano vagato per tre anni, e si erano spinti dai loro territori, a nord del fiume Meno, fino a raggiungere le regioni abitate dai Menapi alla foce del Reno.[9] Sconfitte le due tribù in Gallia belgica,[12] il proconsole romano era penetrato nelle terre dei Germani.
Superato il Reno, compì razzie e saccheggi per terrorizzare il nemico e indurlo a rinunciare a nuove incursioni verso la Gallia.[10] Cesare, respingendo in questi anni le popolazioni germaniche al di là del Reno, aveva di fatto trasformato questo fiume in quella che sarebbe stata una delle più importanti barriere naturali dell'Impero per i successivi quattro-cinque secoli. Aveva, pertanto, non solo fermato i flussi migratori dei Germani, ma salvato la Gallia Celtica dal pericolo germanico, attribuendo così a Roma, che aveva vinto la guerra, il diritto di governare su tutti i popoli presenti sul suo territorio.[13]
Le popolazioni germaniche sembra rimasero calme per circa venticinque anni, mentre nel 38 a.C., la popolazione germanica "cliente" degli Ubi, fu trasferita in territorio romano. Nel 29 a.C. una nuova incursione di Suebi portò ancora devastazione nella parte orientale della Gallia; ancora nel 17 a.C., una coalizione di Sigambri, Tencteri ed Usipeti, causarono la sconfitta del proconsole romano Marco Lollio e la perdita delle insegne legionarie della legio V Alaudae. Fu proprio in seguito a questi aventi che l'Imperatore romano Augusto, recatosi in Gallia nel 16 a.C. insieme al figlio adottivo, Tiberio, ritenne fosse giunto il momento di annettere definitivamente la Germania Magna (come Cesare aveva fatto con la Gallia), portando i confini "naturali" dell'Impero romano più ad est, dal fiume Reno all'Elba.
Le campagne vere e proprie cominciarono nel 12 a.C. grazie al figliastro d'Augusto, Druso maggiore,[14] il quale condusse le armate romane fino ad occupare buona parte dei territori compresi tra Reno e fiume Weser, ma nel 9 a.C. morì prematuramente.[15]
Nuove azioni romane furono intraprese in Germania negli anni successivi, portando i confini imperiali fino all'Elba, grazie soprattutto al comando del futuro Imperatore Tiberio, il quale riuscì ad occupare in modo stabile in tutti i territori germanici ad occidente del grande fiume,[16] con la sola eccezione della Boemia, nella parte sua meridionale.
«Furono vinti i Langobardi, popolo addirittura più feroce della ferocia germanica. Da ultimo [...] l'esercito romano con le insegne fu condotto fino a quattrocento miglia dal Reno, fino al fiume Elba, che scorre tra le terre dei Semnoni e degli Ermunduri.»
Era necessario, pertanto, annettere anche il potente regno dei Marcomanni di Maroboduo. Tiberio si dispose così ad attaccare anche l'ultimo baluardo della Germania libera (nel 6 d.C.),[17][18] muovendo in contemporanea con due eserciti (uno proveniente da Mogontiacum e l'altro da Carnuntum), e convergendo sulla Boemia.[19] Le armate romane furono però fermate dallo scoppio della rivolta in Pannonia e Dalmazia.[20]
Tutti i territori conquistati in questo ventennio furono compromessi quando nel 7 Augusto inviò in Germania Publio Quintilio Varo, sprovvisto di doti diplomatiche e militari, oltreché ignaro delle genti e dei luoghi.
Nel 9 un esercito di 20.000 uomini composto da tre legioni ed una decina di reparti di ausiliari, venne massacrato nella foresta di Teutoburgo da Arminio, cittadino romano di origini germaniche. Fortuna volle che Maroboduo non si alleasse ad Arminio, e che i Germani riuniti si fermassero dinanzi al Reno, dove erano rimaste solo 2 o 3 legioni a guardia dell'intera provincia delle Gallie.[21]
Le campagne militari che seguirono da parte dei Romani (dal 10 al 16 d.C.), prima sotto l'alto comando di Tiberio e poi dell'erede designato, Germanico, erano volte sia a scongiurare una possibile invasione germanica, sia a prevenire possibili sommosse tra le popolazioni delle province galliche.
Alla fine Tiberio, divenuto egli stesso imperatore, preferì sospendere ogni attività militare oltre il Reno, lasciando che fossero le stesse popolazioni germaniche a sbrigarsela, combattendosi tra loro. Egli strinse solo alleanze con alcuni popoli contro altri, in modo da mantenerli sempre in guerra tra di loro;[22] evitando di dover intervenire direttamente, con grande rischio di incorrere in nuovi disastri come quello di Varo;[23] ma soprattutto senza dover impiegare ingenti risorse militari ed economiche, per mantenere la pace entro i "possibili e nuovi" confini imperiali.
Si racconta infatti che nel 18 Arminio, dopo aver raggruppato sotto il suo comando numerose tribù germaniche (come Longobardi, Semnoni, ed alcune stirpi suebiche del regno di Maroboduo), mosse guerra al regno dei Marcomanni di Maroboduo. E contrariamente alle antiche tradizioni germaniche, entrambi i comandanti germanici, ora abituati a seguire le tattiche romane, avendo entrambi servito per anni nelle truppe ausiliarie romane, si affrontarono in modo ordinato e con tattiche per loro inconsuete. Tacito racconta infatti che:
«In nessun altro luogo mai avvenne scontro tra forze di maggior mole, né più incerto fu l'esito. Da entrambe le parti, sbaragliata l'ala destra, la battaglia si sarebbe forse ricombattuta se Maroboduo non avesse posto l'accampamento in alto sui colli. Questo fu il segnale della sua disgrazia. Sguarnito l'esercito lentamente, a causa delle diserzioni continue, egli dovette rifugiarsi presso i Marcomanni, e mandò a Tiberio ambasciatori per chiedere l'intervento romano.»
Tiberio gli rispose che non sarebbe intervenuto in faccende interne alle popolazioni germaniche, poiché Maroboduo stesso si era mantenuto neutrale, quando nel 9, Augusto aveva richiesto invano il suo aiuto militare, dopo la disfatta di Varo. Marboduo fu così costretto a chiedere asilo all'imperatore Tiberio, che lo accolse, lasciando che insieme ai resti della sua corte potesse prender dimora a Ravenna, dove morì ben 18 anni più tardi, nel 36 o 37.[24]
L'anno successivo, nel 19, Arminio fu assassinato dai suoi sudditi, che temevano il suo crescente potere:
«Apprendo dagli storici e dai senatori contemporanei agli eventi che in Senato fu letta una lettera di Adgandestrio, capo dei Catti, con la quale prometteva la morte di Arminio se gli fosse stato inviato un veleno adatto all'assassinio. Gli fu risposto che il popolo romano si vendicava dei suoi nemici non con la frode o con trame occulte, ma apertamente e con le armi [...] del resto Arminio, aspirando al regno mentre i Romani si stavano ritirando a seguito della cacciata di Maroboduo, ebbe a suo sfavore l'amore per la libertà del suo popolo, e assalito con le armi mentre combatteva con esito incerto, cadde tradito dai suoi collaboratori. Indubbiamente fu il liberatore della Germania, uno che ingaggiò guerra non al popolo romano ai suoi inizi, come altri re e comandanti, ma ad un Impero nel suo massimo splendore. Ebbe fortuna alterna in battaglia, ma non fu vinto in guerra. Visse trentasette anni e per dodici fu potente. Anche ora è cantato nelle saghe dei barbari, ignorato nelle storie dei Greci che ammirano solo le proprie imprese, da noi Romani non è celebrato ancora come si dovrebbe, noi che mentre esaltiamo l'antichità non badiamo ai fatti recenti.»
I sessant'anni successivi videro regnare una relativa pace lungo i confini dell'Impero romano e della Germania Magna. Il sistema di clientele creato da Tiberio, diede a Roma un periodo di relativa pace, almeno fino alla rivolta batava degli anni 69-70. Poi sotto Vespasiano[25] e Domiziano, i Romani tornarono ad avanzare in Germania, seppure in una zona marginale denominata Agri Decumates (tra Reno e Danubio, con lo scopo di congiungere Mogontiacum con il Danubio presso Castra Regina).[26]
Il sistema clientelare romano cominciò ad entrare in crisi verso la fine del I secolo, tra l'89 ed il 97, quando la Pannonia fu teatro di una guerra contro le popolazioni suebe di Marcomanni e Quadi, e sarmatiche degli Iazigi del medio corso del Danubio.[27] Si trattava del primo importante segnale di quello che poi si sarebbe rivelato come l'inizio di una lunga serie, prima di invasioni a scopo di razzia (fine del II secolo),[28] e poi di migrazioni di intere popolazioni (dal III secolo in poi), da parte delle tribù germaniche che gravitavano lungo il limes danubiano e renano nei secoli successivi. In questo lungo periodo, l'ultimo tentativo da parte romana di condurre una guerra offensiva in territorio barbarico, avvenne sotto l'imperatore Marco Aurelio, con l'occupazione temporanea della Marcomannia (attorno al 175).[29] Poi il lento ed inarrestabile declino, fino al definitivo crollo dell'Impero romano d'Occidente sotto la costante pressione delle popolazioni germaniche, ora confederatesi in Alemanni, Franchi, Goti e Sassoni.
Struttura unità
modificaFanteria
modificaFin dai tempi di Cesare il normale schieramento delle fanterie germaniche (in questo caso quelle dei Suebi di Ariovisto), era invece di tipo falangitico come ci racconta ancora Cesare:
«Con tale violenza i Romani andarono all'assalto dei Germani, ma altrettanto improvvisamente e rapidamente i Germani corsero all'attacco, che non vi fu spazio [da parte dei Romani] di lanciare i pilum contro il nemico. Lasciati da parte i pila si combatté, corpo a corpo, con le spade. Ma i Germani velocemente secondo il loro costume, si schierarono in falange e sostennero l'assalto delle spade.»
Tutto ciò viene confermato dallo storico latino Tacito nella sua Germania (verso la fine del I secolo d.C.), secondo il quale i Germani, a differenza dei Celti, combattevano soprattutto a piedi, in formazione falangitica a "cuneo".[30] Dalle tribù nomadiche delle steppe (sciti e sarmati) appresero poi un maggior utilizzo del cavallo a discapito della fanteria.
«[...] il numero di questi [fanti] è fisso. Sono 100 per ogni distretto, e si chiamano così tra loro, in modo che quello che inizialmente fu solo un numero, oggi è un appellativo d'onore.»
Il nerbo dell'esercito dei Catti era la fanteria, che combatteva con azioni lente ma con fermo coraggio.[31]
Cavalleria
modificaAncora Cesare racconta di come i cavalieri germani (almeno le popolazioni che si trovavano poco ad est del Reno) combattevano normalmente. Da questa forma tecno-tattica, si ritiene che in seguito nacquero le cosiddette coorti equitate al tempo della riforma augustea dell'esercito romano:
«Ariovisto [...] ogni giorno combatté con la cavalleria. Era questo il genere di combattimento nel quale i Germani si esercitavano. I cavalieri erano 6.000: c'erano altrettanti fanti molto valorosi e assai veloci nella corsa. I cavalieri li avevano scelti da ogni reparto, uno ad uno per la propria difesa personale. Partecipavano alle battaglie in loro compagnia. I cavalieri si ritiravano presso di loro e se il combattimento si inaspriva, andavano anche loro alla carica. Se qualcuno era ferito in modo grave, era caduto da cavallo, lo circondavano. Se dovevano compiere una lunga avanzata o una rapida ritirata, la loro velocità era tanto grande per l'esercizio, che sostenendosi alle criniere dei cavalli ne eguagliavano la corsa in velocità.»
Si distinguevano nel combattimento a cavallo soprattutto i Tencteri, al pari dei Catti per la fanteria.[32]
Mercenari
modificaTacito racconta che quando la tribù presso la quale si vive, si trova in un lungo periodo di pace, lasciando i suoi guerrieri a vivere nell'ozio, molti giovani della nobiltà vanno spontaneamente presso altre popolazioni, che in quel momento sono impegnate in guerra, e combattono una guerra non loro. Questo avviene perché i Germani sono una razza che è insofferente alla pace, e anche perché si acquista gloria, solo in mezzo ai pericoli, e solo con la guerra si può mantenere un grosso seguito. Solo con la guerra e le razzie si possono procurare i mezzi per essere liberali ed equi.[33]
Flotta
modificaSembra che tra i Germani del primo secolo d.C., i Suioni del mar Baltico disponevano di potenti flotte. La forma delle loro imbarcazioni differiva però dalle altre imbarcazioni, in quanto da entrambe le estremità la prora offriva la parte anteriore dell'approdo. Non disponevano però, né di navi con vele, né di remi in fila ai fianchi. I remi, al contrario, erano liberi come quando si naviga lungo un fiume. Essi remavano, infatti, o da una parte o dall'altra a seconda della necessità.[34]
Uomini, organizzazione e gerarchia interna
modificaI Germani crescono nudi e sudici fino a raggiungere quella solidità di membra e grandezza dei loro corpi che destano la meraviglia dei loro avversari, come i Romani. Non si possono distinguere servi dai padroni, per alcuna particolare educazione. Entrambi infatti crescono negli stessi ambienti, fino a quando l'età separa i liberi ed i valore li mette in evidenza.[35]
La struttura fondamentale della società germanica era il clan (Sippe), formato dall'unione di più famiglie patriarcali imparentate fra loro. Il clan costituiva un'entità militare (nelle formazioni di fanteria e cavalleria) e politica del tutto autonoma e autosufficiente. Accanto ai combattenti stanno, infatti, i loro cari, così vicini che essi odono le urla delle donne e i vagiti dei bambini.[36] I capi-clan diedero vita, probabilmente già in età molto antica, a periodiche riunioni assembleari. L'entità superiore delle Sippen era il "popolo" (gau o pagus, chiamato dai Romani civitas), cioè una tribù stanziata in un determinato territorio.
Sostanzialmente democratica, la società germanica conobbe forme di monarchia elettiva[37] entro le quali l'assemblea degli uomini liberi (allthing o witan) periodicamente riunita manteneva di fatto tutti i poteri, compreso quello giudiziario. Le assemblee esprimevano le decisioni del popolo, che quindi consisteva nell'unione libera e volontaria di diversi clan.
In caso di guerra l'assemblea nominava dei comandanti dell'esercito[37] (che Cesare definisce communis magistratus[38]), uomini di particolare valore o autorità, che spesso combattono a capo delle proprie schiere;[37] e questi, semplici "primi fra pari", dovevano sempre rispondere del loro operato all'assemblea stessa. Solo in epoca più tarda i comandanti militari eletti, iniziarono ad assumere connotati sempre più simili ai re (sebbene già Cesare alla metà del I secolo a.C., avesse definito Ariovisto, rex Germanorum[39]) e con la formazione dei regni romano-barbarici, dopo la fine dell'Impero Romano d'Occidente, si affermarono stirpi reali prestigiose. In ogni caso, le figure dei sovrani germanici a capo dei loro eserciti, furono sempre limitate nel loro potere dall'assemblea.
Anche ai giovani valorosi o di insigne nobiltà, erano conferiti in alcuni casi i poteri di un capo. Tacito racconta che in uno stesso seguito c'era una gerarchia di posti, distribuiti secondo la decisione di chi lo guida; i subordinati gareggiano tra loro per emulare il loro capo ed occupare il posto più vicino allo stesso; i capi a loro volta, gareggiano per avere compagni il più possibile numerosi, valorosi e forti.[40]
Quando si giunge alla battaglia, è vergognoso per un capo lasciarsi superare in valore dai subordinati, ma lo è pure per questi ultimi non eguagliare in coraggio il proprio comandante. È pure ignominioso mettersi in salvo da un combattimento, quando il capo è stato ucciso, poiché è dovere dei subordinati proteggerlo, attribuendo allo stesso persino le proprie azioni eroiche.[41]
Tattica ed armamento
modificaArmamento
modificaTacito ci informa che il ferro in Germania Magna era scarso, ancora alla fine del I secolo, come si poteva dedurre anche dalla tipologia delle loro armi. Pochi infatti sembra si servissero di spade o grandi lance. Maneggiano invece quelle aste che chiamano framea, con una testa stretta e corta, ma così affilate e facili da maneggiare che la stessa arma serve, a seconda delle circostanze, per combattimenti corpo a corpo o a distanza.[42] I guerrieri a cavallo portano anche scudo e lancia; i fanti lanciano moltissimi proiettili ognuno, e li scagliano a grandi distanze; combattono nudi o al massimo vestiti in modo leggero con una leggera tunica. I Germani non hanno nessun vezzo o eleganza. Si limitano ad ornare i loro scudi con colori particolari.[43] Pochi di loro portano la corazza, solo uno o due (su 100) l'elmo di metallo (cassis) o di cuoio (galea).[44]
Tacito racconta anche delle lontane popolazioni prossime al mar Baltico dei Goti, le quali utilizzavano invece, insieme a Rugi e Lemoni, scudi rotondi e spade corte.[45]
Schieramento e combattimento
modificaI Germani hanno un "grido di battaglia" chiamato da Tacito, barditus:
«[...] con il barditus [i Germani] accendono gli animi alla battaglia, traendo dalle stesse urla buon auspicio per l'esito finale dello scontro. Essi spaventano così il nemico o sono essi stessi spaventati, a seconda di come riecheggia l'urlo nelle schiere. Questo canto-urla non sembra composto di voci, ma appare come l'espressione di un suono superiore di coraggio e valore. Sono soprattutto ricercati i suoni aspri, il mormorio spezzato, che si ottengono con gli scudi messi davanti alla bocca, così la voce ripercorsa, appare più piena e grave.»
Secondo Tacito, a giudicare dal complesso, sta nella fanteria il nerbo dell'esercito dei Germani, dove i fanti si mischiano con i cavalieri, in modo che bene si adattano alla battaglia tra cavallerie e si armonizza la velocità dei soldati della fanteria, scelti tra i giovani e destinati al fronte dello schieramento.[47] L'esercito schierato a battaglia, si dispone a cuneo.[48] Tacito aggiunge poi che:
«I Germani non ritengono un atto di viltà, ma solo un segno di prudenza, il ritirarsi, purché si ritorni a combattere. Anche quando l'esito della battaglia non è stato troppo favorevole, riportano dal campo i corpi dei compagni caduti. È per loro massima vergogna abbandonare lo scudo. Chi si macchia di una simile colpa viene escluso dalle assemblee e dalle cerimonie sacre, tanto che molti che si erano ritirati dal combattimento, poi si impiccarono per porre fine alla vergogna.»
Tacito aggiunge che accanto alle schiere di combattenti, stanno nelle retrovie i loro famigliari, così vicini da sentire le urla di incitamento delle loro donne e dei loro figli. Questi sono per ogni soldato le persone più care, a cui porgono le ferite da curare (a madri e mogli) e dalle quali sono nutriti con cibo, esortati ed incoraggiati.[49]
«Si racconta che a volte le schiere che ripiegarono, tanto da trovarsi sul punto di cedere, furono sospinte a tornare a combattere grazie alle insistenti preghiere delle donne che, mostrando i loro petti, facevano capire ai loro uomini il pericolo che su di loro incombeva se cadevano prigioniere. E infatti i Germani temono maggiormente la prigionia delle donne, che la propria.»
Tecniche d'assedio
modificaPoco sappiamo e poco se ne parla delle tecniche d'assedio degli antichi Germani. Vivendo in piccoli villaggi che, secondo i rilevamenti archeologici odierni, non sembra fossero muniti di alte e spesse mura (come lo erano invece gli oppida dei vicini Galli), non conoscevano alcuna specifica tecnica d'assedio, forse solo una qualche tecnica di difesa. Se ne fa un breve accenno, di una loro fallito tentativo d'assedio ad una postazione romana, durante gli anni delle guerre marcomanniche. Questo episodio è rappresentato nella scena XI della colonna di Marco Aurelio a Roma, secondo il quale i barbari approntarono una grande macchina d'assedio che fu distrutta da un fulmine. All'episodio avrebbe assistito lo stesso Imperatore, Marco Aurelio.[50] E sempre a questo periodo è da attribuire un altro fallimento da parte della coalizione germanica di Marcomanni, Quadi e Vandali nell'assediare Aquileia (nel 170), sebbene l'orda barbarica fosse assai numerosa, ma ancora una volta risultò impotente di fronte alle mura di una grande città romana.[51]
I primi assedi di una certa importanza a città romane, che si prolungarono per lungo tempo ed in alcuni casi andarono a buon fine, apparterrebbero alla metà del III secolo, quando i barbari del nord cominciarono a sfondare ripetutamente il limes romano. Si racconta infatti che nel 248 i Goti, furono fermati dal generale di Filippo l'Arabo, Decio Traiano, futuro imperatore, presso la città di Marcianopoli, che era rimasta sotto assedio per lungo tempo. La resa fu possibile grazie ad una tecnica ancora rudimentale da parte dei Germani in fatto di macchine d'assedio e probabilmente, come suggerisce Giordane, «dalla somma versata loro dagli abitanti».[52]
Ancora nel 249 una nuova ondata di Goti e Carpi assediò per lungo tempo Filippopoli (l'odierna Plovdiv), dove si trovava il governatore Tito Giulio Prisco.[53] Una decina di anni più tardi, nel 260, orde di Franchi riuscirono ad impadronirsi della fortezza legionaria di Castra Vetera e assediarono Colonia, risparmiando invece Augusta Treverorum (l'odierna Treviri).[54] Nel 262, ancora i Goti compirono una nuova incursioni via mare lungo le coste del Mar Nero, riuscendo a saccheggiare Bisanzio, l'antica Ilio ed Efeso.[55]
Imboscate
modificaLe grandi foreste e le immense zone paludose della Germania Magna,[56] permisero a questi antichi popoli di poter attuare in modo sempre più efficace, contro l'avanzata romana nei loro territori, la tattica dell'imboscata. Rimane certamente la più famosa, quella messa in atto dal principe dei Cherusci, Arminio, il quale nei pressi della moderna località di Kalkriese, riuscì a distruggere completamente un'intera armata romana, formata da tre legioni, 6 coorti di fanteria e 3 Ali di cavalleria ausiliaria. Sulla base delle recenti campagne di scavo del sito della battaglia, gli storici ed archeologi moderni sono giunti alla conclusione che Arminio avesse predisposto con estrema cura tutti i dettagli dell'imboscata:
- aveva scelto il luogo dell'agguato, vale a dire il punto in cui la grande palude a nord, si avvicinava di più alla collina calcarea di Kalkriese, e dove il passaggio era ristretto a soli 80-120 metri;
- fatto deviare il normale tracciato della strada, con lo scopo di condurre l'esercito romano in un imbuto, senza uscita;
- fatto costruire un terrapieno (lungo circa 500-600 metri e largo 4-5), dietro cui nascondere parte delle sue truppe (concentrando sul posto non meno di 20/25.000 armati), lungo i fianchi della collina del Kalkriese (alta circa 100 metri), da cui potevano attaccare il fianco sinistro delle truppe romane.
Questa la descrizione tramandataci dallo storico Cassio Dione Cocceiano, dell'iniziale assalto germanico alla "colonna" romana in marcia:
«... i barbari, grazie alla loro ottima conoscenza dei sentieri, d'improvviso circondarono i Romani con un'azione preordinata, muovendosi all'interno della foresta ed in un primo momento li colpirono da lontano (evidentemente con un continuo lancio di giavellotti, aste e frecce) ma successivamente, poiché nessuno si difendeva e molti erano stati feriti, li assalirono. I Romani, infatti, avanzavano in modo disordinato nel loro schieramento, con i carri e soprattutto con gli uomini che non avevano indossato l'armamento necessario, e poiché non potevano raggrupparsi (a causa del terreno sconnesso e degli spazi ridotti del sentiero che seguivano) oltre ad essere numericamente inferiori rispetto ai Germani che si gettavano nella mischia contro di loro, subivano molte perdite senza riuscire ad infliggerne altrettante...»
Altri storici dell'antica Roma dipinsero questo massacro come uno dei peggiori dell'intera storia romana, paragonabile solo a Canne e Carre:
«...nulla di più cruento di quel massacro fra le paludi e nelle foreste... ad alcuni soldati romani strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, di uno fu cucita la bocca dopo avergli tagliato la lingua...»
«(Germanico giunto sul luogo della battaglia osservava) ...nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse... sparsi intorno... sui tronchi degli alberi erano conficcati teschi umani. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i principali centurioni...»
Ma questo episodio non fu certamente l'unico. Se ne ricordano altri occorsi ad altri generali romani, che per loro fortuna e bravura tattica, riuscirono ad uscirne vittoriosi, come ad esempio a Druso maggiore durante la "campagna" militare degli anni 12-9 a.C., quando nel corso di una ritirata incappò in insidie molto pericolose:
«I Germani, infatti, con un diversivo lo assalirono di sorpresa, e dopo averlo chiuso in un luogo stretto e profondo, per poco non lo annientarono. E lo avrebbero sbaragliato insieme a tutta la sua armata romana, se essi, nella loro infinita presunzione di averli già praticamente catturati e di dover solo compiere l'attacco finale, non lo avessero assalito in modo disordinato. E così alla fine furono i Germani a subire una sconfitta, dalla quale non si mostrarono più così coraggiosi. Al contrario si mantenevano ad una sufficiente distanza dai Romani da poterli infastidire, rinunciando però ad avvicinarsi.»
oppure di un certo Aulo Cecina Severo durante quella di Germanico degli anni 14-16 d.C.;[57] o ancora durante le guerre marcomanniche, riguardo al cosiddetto episodio del "miracolo della pioggia", quando una "colonna" romana, intrappolata tra le foreste e le montagne della Marcomannia fu salvata dalla pioggia, che dissetò i soldati romani, circondati dai Quadi, dando loro nuove energie per uscire vincitori dall'accerchiamento germanico.[58]
Combattimento con la cavalleria
modificaCesare descrive i combattimenti equestri dei Germani nel suo libro IV del De bello Gallico (55 a.C.):
«Nei combattimenti equestri spesso scendono da cavallo e combattono a piedi. Hanno addestrati i loro cavalli e rimanere sul posto. Quando ne hanno bisogno ritornano velocemente da dolo. Secondo loro, nulla è considerato di più vile che utilizzare la sella. E quindi, solo pochi hanno il coraggio di andare alla carica di cavalieri con sella in un certo numero.»
«I Germani, non appena videro 5.000 cavalieri romani, sebbene non fossero più di 800 [...], decisero di attaccare e rapidamente batterono i Romani, non avendo alcun timore [...]. Quando poi i Romani provavano a resistere, secondo il loro costume [i Germani] saltavano giù da cavallo a piedi: disarcionavano quindi molti Romani trafiggendo loro i cavalli, cacciando gli altri in fuga, e tanto impauriti li inseguivano, fino a quando non giunsero in vista dell'esercito [di Cesare]. In quello scontro perirono 74 Romani.»
Tacito, un secolo e mezzo più tardi, aggiunge altri particolari ai reparti di cavalleria, sostenendo che i loro cavalli non erano né belli a vedersi, né veloci nella cavalcata. I Germani non insegnano loro a compiere delle evoluzioni, come invece facevano i Romani. Li guidano dritti davanti a loro, oppure li fanno ripiegare con un solo tipo di conversione verso destra, in modo da non ostacolarsi vicendevolmente in caso di ritirata, evitando così che qualcuno possa rimanere indietro.[44]
Razzie ed incursioni
modificaAl tempo di Cesare le razzie compiute fuori dal proprio territorio, non portavano infamia. Al contrario si diceva che rappresentavano un modo per esercitare la gioventù e diminuire la pigrizia e la vigliaccheria.[59]
Auspici
modificaI Germani traggono auspici, al fine di prevedere l'esito di guerre importanti, facendo combattere un prigioniero che appartenga a quel particolare nemico, con un loro campione. Ognuno dei combattenti si serva poi delle proprie armi. La vittoria dell'uno o dell'altro viene considerata come un presagio.[60]
Strategia
modificaOgni popolo considera la più grande gloria che vi siano attorno ai confini del loro nazione, territori disabitati per la più vasta estensione possibile. Questo significa per loro che un certo numero di nazioni, non è in grado di resistere alla loro forza d'arme. Cesare racconta che da una parte dei confini dei Suebi è disabitato per un tratto di paese pari a circa 600.000 passi (pari a poco meno di 900 km).[61]
«La gloria più grande per un popolo consiste ne fare il deserto intorno ai propri confini, devastando i territori circostanti. Considerano segno particolare del loro valore che le popolazioni limitrofe, cacciate dai loro territori, si ritirino, e che nessuno si azzardi a fermarsi vicino a loro. Allo stesso tempo credono che tale situazione li renda più sicuri, eliminando il timore di un'invasione improvvisa.»
Dimensione dei loro eserciti
modificaCesare racconta nel suo De bello Gallico che il popolo dei Suebi, di cui faceva parte anche Ariovisto, era di gran lunga il più numeroso e bellicoso tra tutti i Germani, e poteva mettere in campo per fare la guerra fuori dai confini dei loro territori, fino a 100.000 armati (1.000 per ogni pagus).[62] La coalizione di popolazioni germaniche,[6] che era formata da Marcomanni, Triboci, Nemeti, Vangioni, Sedusi, Suebi e Arudi, sembra sia cresciuta fino a raggiungere rapidamente le 100.000-120.000 unità.[8]
Pochi anni più tardi (nel 55 a.C.), sempre Cesare ci racconta di una nuova incursione in Gallia delle tribù germaniche di Usipeti e Tencteri, le quali si erano spinte dai loro territori, a nord del fiume Meno, fino a raggiungere le regioni abitate dai Menapi alla foce del Reno. Cesare sostiene fossero ben 430.000 persone, tra civili ed armati.[63]
Si racconta che il principe Maroboduo, re dei Marcomanni di Boemia, contro il quale il generale romano Tiberio aveva schierato le sue armate in una spedizione mai portata a termine nel 6 d.C., disponesse di un'ingente armata:
«In breve Maroboduo condusse ad altissimo prestigio le sue forze militari che difendevano il suo regno, tanto da essere temibile anche al nostro impero, e le abituò, con continui esercizi, ad un tipo di disciplina quasi simile a quella romana. Nei confronti dei Romani egli si comportava in modo da non provocarci a battaglia, ma da mostrare che non gli sarebbe mancata né la forza né la volontà di resistere, qualora fosse stato da noi attaccato... In tutto si comportava come un rivale, pur cercando di non darlo a vedere, esercitando con guerre continue contro i popoli limitrofi, il suo esercito composto da 70.000 fanti e 4.000 cavalieri...»
Nel 9 d.C., il principe dei Cherusci, Arminio, riuscì a mettere insieme una coalizione di popoli germani formata da Cherusci e Bructeri, oltre probabilmente a Sigambri, Usipeti, Marsi, Camavi, Angrivari e Catti, per un totale stimato di 20.000/25.000 armati.[64] Riguardo alle ingenti forze che i Germani misero in campo nel corso delle invasioni del III secolo, possiamo sintetizzarle come segue:
D A T A | N. TOTALE ARMATI |
POPOLI COINVOLTI | NAVI DA GUERRA |
DOVE |
---|---|---|---|---|
58 a.C.[65] | 100.000-120.000 armati[8] | Marcomanni, Triboci, Nemeti, Vangioni, Sedusi, Suebi e Arudi[8] | Gallia-Alsazia[65] | |
248[66] | + di 60.000[66] | Goti, Taifali, Asdingi e Carpi[66] | Mesia e Tracia[66] | |
249[53] | + di 70.000[53] | Goti e Carpi[53] | Dacia, Mesia e Tracia[53] | |
267-268[67] | 320.000[67][68] | Peucini, Grutungi, Ostrogoti, Tervingi, Visigoti, Gepidi, Celti ed Eruli[67] | 2.000[67]/6.000[69] navi | Mesia, Tracia, Grecia e Asia Minore[67] |
269[70] | + di 50.000[70] | Goti[70] | Mesia, Tracia e Macedonia[70] | |
277-278[71] | + 400.000 barbari uccisi[71] | Franchi, Lugi, Burgundi e Vandali[71] | Gallie e Rezia[71] | |
281[72][73] | 100.000 persone insediate[72][73] | Bastarni[72][73] | Tracia[72][73] | |
298[74] | 60.000[74] | Alemanni[74] | limes renano[74] |
Note
modifica- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, II.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, III.
- ^ Villar, cit., p. 425.
- ^ Villar, cit., p. 428.
- ^ Villar, cit., pp. 428-429.
- ^ a b si trattava dei popoli di Marcomanni, Triboci, Nemeti, Vangioni, Sedusi, Suebi e Arudi, come riporta Cesare nel De bello Gallico, I, 51.
- ^ Cesare potrebbe quindi aver percorso in 6 giorni di marcia (partendo da Vesonzio), una distanza di circa 120-140 km, con una media di circa 20-25 km al giorno (E. Abranson e J.P. Colbus, La vita dei legionari ai tempi della guerra di Gallia, Milano 1979, pp. 30-31), considerando che il tragitto da Vesontio al Reno è di circa 150 km e che il luogo della battaglia, secondo quanto ci tramanda lo stesso Cesare, si trovava a soli 7,5 km dal fiume Reno (De bello Gallico, I, 53,1), forse confuso con il fiume Ill.
- ^ a b c d Cesare, De bello Gallico, I, 49-53. Appiano (in Storia della Gallia, frammento 3) parla di 80.000 Germani uccisi nel corso della battaglia tra armati e civili.
- ^ a b Cesare, De bello Gallico, IV, 3.
- ^ a b Cesare, De bello Gallico, IV, 16-19; Cassio Dione, Storia romana, XXXIX, 48,3-49,2; Plutarco, Vita di Cesare, 22,6-23,1; Svetonio, Vita di Cesare, 25; Appiano, Celtica, 18; Cicerone, Orazione contro Pisone, 81.
- ^ Cesare, De bello Gallico, VI, 9-29.
- ^ Cesare, De bello Gallico, IV, 11-15; Cassio Dione, Storia romana, XXXIX, 47-48,2; Plutarco, Vita di Cesare, 22, 1-5; Appiano, Celtica, 18, 1-4.
- ^ Jérôme Carcopino, Giulio Cesare, pagg. 277-278.
- ^ Svetonio, Claudio, 2-4; Tacito, Annales, II, 8. Cassio Dione, Storia romana, LIV.32.
- ^ Cassio Dione, Storia romana, LV, 1.5-2.2.
- ^ Augusto, Res gestae divi Augusti, 26; Velleio Patercolo, II, 106-107.
- ^ Cassio Dione, Storia romana, LV, 28.5-7.
- ^ R. Syme, L'Aristocrazia augustea, p. 156.
- ^ Tacito, Annales, II.46.
- ^ Velleio Patercolo, II, 108-110.
- ^ Cassio Dione, Storia romana, LVI, 18-24.1-2.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, XXXIII, 1-2.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, XXXIII, 3.
- ^ Tacito, Annales, II, 63.
- ^ CIL XI, 5271.
- ^ Frontino, Strategemata, I, 3.10.
- ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVII, 5-7. Svetonio, Vite dei Cesari, Domiziano, 6. CIL III, 291, CIL XI, 5992.
- ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LXXII, 1-33. Historia Augusta, Vita di Marco Aurelio, di Lucio Vero e di Commodo.
- ^ Historia Augusta, Vita di Marco Aurelio, 24.5.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, VI.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, XXX, 3.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, XXXII, 2.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, XIV, 3-4.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, XLIV, 2.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, XX, 1-3.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, VII, 3.
- ^ a b c Tacito, De origine et situ Germanorum, VII, 1.
- ^ Cesare, De bello gallico, VI, 32.4.
- ^ Cesare, De bello gallico, I, 31.10. Ariovisto è pure definito Rex Sueborum da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (II, 170). Tito Livio invece nelle sue Periochae (104), lo definisce dux Germanorum.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, XIII, 3-4.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, XIV, 1-2.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, VI, 1.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, VI, 2.
- ^ a b Tacito, De origine et situ Germanorum, VI, 3.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, XLIV, 1.
- ^ Cesare, De bello Gallico, I, 51.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, VI, 4.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, VI, 6.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, VII, 4.
- ^ Historia Augusta, Vita di Marco Aurelio, 24.4.
- ^ Cassio Dione, Storia romana, LXXII, 3.1.
- ^ Giordane, De origine actibusque Getarum, XVII, 1; Grant, p. 212.
- ^ a b c d e Giordane, De origine actibusque Getarum, XVIII, 1.
- ^ P.Southern, The Roman Empire: from Severus to Constantine, p.217.
- ^ Historia Augusta - Due Gallieni, 6.1 (Efeso, forse databile a campagna successiva del 267/268) e 7.4 (Bisanzio).
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, V, 1.
- ^ Tacito, Annales, 63.3 - 68.5.
- ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LXXII, 8-9.
- ^ Cesare, De bello Gallico, VI, 23.6.
- ^ Tacito, De origine et situ Germanorum, X, 5-6.
- ^ Cesare, De bello Gallico, IV, 3.1-2.
- ^ Cesare, De bello Gallico, IV, 1.3-4.
- ^ Cesare, De bello Gallico, IV, 15, 3.
- ^ Michael McNally & Peter Dennis, Teutoburg Forest AD 9: The Destruction of Varus and His Legions , Osprey Publishing, 2011, p.26.
- ^ a b Cesare, De bello Gallico, I, 35-53.
- ^ a b c d Giordane, De origine actibusque Getarum, XVI, 1-3.
- ^ a b c d e Historia Augusta - Claudio II il Gotico, 6.2-8.1.
- ^ Breviarium ab urbe condita, 9, 8.
- ^ Zosimo, Storia nuova, I, 42.1.
- ^ a b c d Grant, p. 231-232.
- ^ a b c d Historia Augusta - Probo, 13.7.
- ^ a b c d Historia Augusta - Probo, 18.1.
- ^ a b c d Zosimo, Storia nuova, I, 71.1.
- ^ a b c d Eutropio, Breviarium ab urbe condita, 9, 23.
Bibliografia
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- Herwig Wolfram, I germani, Il Mulino, Bologna, 2005
Voci correlate
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